[Esce domani per Quodlibet A regola d’arte. Storia e geografia del campo letterario italiano (1902-1936), di Anna Baldini. Ne pubblichiamo l’introduzione].
1. Dinamiche di campo e regole dell’arte
Questo libro racconta i primi trentacinque anni della letteratura italiana del Novecento adottando una prospettiva ancora non tentata in maniera sistematica su questo oggetto di studio. Ho provato a disegnare una mappa che rendesse conto delle vette del canone e delle conurbazioni sparse della paraletteratura; a intessere una narrazione che desse spazio alle azioni e alle motivazioni degli individui, ma interpretandole alla luce di relazioni e dinamiche ricorrenti; a servirmi di una lente bifocale che mettesse a fuoco tanto il dettaglio minuto, all’occorrenza filologico, quanto le linee generali di una fenomenologia.
Ho voluto insomma movimentare una storia troppo spesso congelata per effetto del canone. Leggere il passato alla luce delle opere che oggi consideriamo importanti è un’operazione doppiamente rischiosa per chi miri a un’autentica conoscenza storica: non solo la nostra prospettiva valoriale non coincide con quella di chi scriveva, leggeva e pubblicava un secolo fa, ma l’assolutizzazione del canone odierno si accompagna troppo spesso all’oblio sui conflitti che l’hanno prodotto. Proiettare sul passato il punto di vista del presente, cioè di chi giunge a battaglia terminata, non significa soltanto raccontare la storia dal punto di vista dei vincitori, ma spesso anche ignorare che delle battaglie sono state combattute.
Nelle pagine che seguono mi sono proposta di raccontare la storia di un trentennio di letteratura rompendo con la narrazione irenica, costruita su un succedersi di autori, poetiche, generi e movimenti che caratterizza l’impianto narrativo dominante nell’insegnamento della storia letteraria, e più in generale l’approccio idealizzato ai mondi della creazione intellettuale e artistica. Nella percezione comune, riflessa nella successione di grandi autori dei manuali di storia delle arti, l’opera è il prodotto del genio individuale: in questa prospettiva, rivalità e conflitti trovano spazio esclusivamente come aneddotica biografica, idiosincrasie contingenti irrelate rispetto alle opere.
In un’altra tipologia di racconto delle arti, quella derivata dalla storia delle idee, il conflitto è concepito come successione o alternanza di poetiche, di cui sono portavoce o portatori singoli artisti e movimenti, mentre nella tradizione marxista di sociologia delle arti le dinamiche conflittuali che lasciano segno nelle opere sono generate dalla struttura gerarchica e di classe delle società in cui gli artisti sono immersi. Dietro i tratti caratteristici di un’opera d’arte la migliore ermeneutica che fa riferimento a questa tradizione intravede in controluce il nodo di relazioni materiali, sociali e istituzionali che inglobano l’artista; troppo spesso, però, le storiografie letterarie che si richiamano al materialismo marxista hanno mimato la storia delle idee. Le forze sociali in conflitto, come le poetiche contrapposte, tendono così ad assomigliare ai «concetti scaturiti […] da intelligenze disincarnate» di cui parla Lucien Febvre a proposito di certa storia della filosofia: diventano, cioè, agenti di un dramma intellettuale astratto dalle relazioni umane documentate e dal processo concreto della creazione artistica.
Lo strumento di cui mi sono servita per tenere insieme sguardo dall’alto e attenzione al dettaglio, analisi di contesto ed ermeneutica, le motivazioni e passioni degli individui con le traiettorie delle istituzioni in cui questi si muovono, si innesta sul troncone della tradizione marxista ma individua il motore della creazione non tanto nella conflittualità della società nel suo insieme, quanto nella rete in cui si muovono scrittori e scrittrici, traduttori e traduttrici, lettori e lettrici per svago o di professione, personale di scuole, università, imprese editoriali e delle altre istituzioni incaricate di tramandare il valore letterario. Il sociologo francese Pierre Bourdieu ha chiamato “campo letterario” il microcosmo in cui agiscono tutti coloro che, avendo fatto della letteratura il proprio principale orizzonte esistenziale, sono impegnati in un gioco sociale retto da norme diverse rispetto a quelle che regolamentano gli altri campi in cui la divisione del lavoro ha segmentato la società.
Quali relazioni e conflitti dinamizzano il campo letterario, e più in generale i campi artistici? Qual è la posta in gioco per la quale vi si investono energie e talento?
Il principale motore dell’agire nel campo letterario, come in ogni ambito della società, è la ricerca di riconoscimento e prestigio: una moneta corrente che Bourdieu chiama “capitale simbolico”, e che circola in conii diversi nei vari universi sociali. Il capitale simbolico posseduto dai vari attori del campo letterario si misura sul grado di riconoscimento loro accordato: sarà tanto più elevato quanto più i testi di uno scrittore sono considerati importanti e se ne profetizza la canonizzazione; quanto più un critico sa imporre la sua lettura di opere del passato, interpretare quelle presenti e orientare l’operato degli scrittori; quanto più prestigioso e popolato di classici è il catalogo di una casa editrice.
Il capitale simbolico può essere investito per rafforzare una certa idea di letteratura (uno scrittore riconosciuto può garantire per un esordiente, presentare o tradurre un testo straniero, curare una collana) e conferisce influenza e potere: gli individui e le istituzioni che ne sono più dotati determinano il nomos del campo, le norme in base alle quali le opere vengono giudicate. È raro che queste regole vengano esplicitate, ma le si può dedurre dalle prassi e dai comportamenti: che cosa viene scritto, come viene valutato, quali generi sono praticabili, quali contenuti sono considerati inaccettabili, quali forme accantonate come obsolete. Da ciò che gli scrittori producono – e ancor di più da ciò che non producono, che si rifiutano di scrivere – è possibile ricavare un corpus di precetti e interdetti, mai formalizzati in alcun decalogo, ma introiettati da tutti coloro che investono la loro esistenza nella conquista del capitale letterario. In questo libro chiamerò “regole dell’arte” questo set di imperativi continuamente negoziati, che Bourdieu definisce anche come “spazio dei possibili”: entrambe le formule indicano il repertorio di forme, generi, contenuti che in un dato momento storico è praticabile da uno scrittore.
2. Autonomia ed eteronomia
L’elaborazione delle regole dell’arte non avviene mai in totale autonomia. Nella macro-struttura che gerarchizza le società, i campi intellettuali si trovano in posizione dominata rispetto a quelli politico, economico, mediatico, in altri secoli religioso: rispetto, cioè, ai campi sociali che riescono a imporre le proprie norme di regolazione del conflitto e i propri capitali simbolici al resto della società. Criteri di valutazione eteronomi intrudono così nel campo letterario: un’opera può essere apprezzata per motivi che prescindono dal giudizio degli esperti, come la conformità a un’ideologia politica o religiosa, la visibilità pubblica, la capacità di generare denaro. Dalla seconda metà dell’Ottocento, quest’ultima forma di eteronomia si è venuta imponendo nei campi artistici occidentali come il principio contrastivo di maggior rilievo rispetto ai criteri elaborati da chi è interessato esclusivamente al valore d’arte. Si tratta di un’antitesi fondamentale, trasformatasi nell’automatismo percettivo che contrappone il bestseller alla letteratura di ricerca, la musica commerciale a quella indie, il blockbuster al film d’essai . La produzione letteraria si dispone così lungo uno spettro ai cui estremi teorici, di rado incarnati in oggetti concreti, si trovano un polo di produzione ristretta, dove si fa letteratura accessibile esclusivamente ad altri professionisti della letteratura, e un polo di produzione di massa, dove circolano opere fabbricate per avere il massimo successo commerciale.
Delle opposte tipologie di testi prodotte in prossimità di questi due poli si sono tradizionalmente occupate discipline distinte: l’ermeneutica e la storiografia letterarie interpretano le opere canonizzate o da canonizzare; la sociologia della letteratura – sotto forma di storia della ricezione o dell’editoria – studia la produzione di minor prestigio. Ragionando sulla sfida intellettuale posta dalla massa di testi esclusi dal canone, «quel 99% di letteratura che si è perso nel nulla, e che nessuno si sogna di rivendicare», Franco Moretti ha proposto nell’ultimo ventennio di rinnovare l’approccio al «Great Unread» attraverso un distant reading – antitetico al close reading applicato alle opere del canone – che consenta, sfruttando le risorse della digitalizzazione e dell’interrogazione automatizzata dei testi, di «rovesciare la gerarchia tra la serie e l’eccezione, in cui la prima diventi – come è – la presenza dominante del campo letterario.
L’opposizione tra close e distant reading mantiene però separati l’approccio al canone e al corpus. Adottando come paradigma interpretativo le dinamiche messe in luce da Bourdieu è invece possibile integrare in un unico discorso quanto avviene ai due poli della produzione letteraria. In questo libro cercherò di connettere le azioni di autori, critici ed editori interessati principalmente all’elaborazione di valori letterari autonomi con quanto si scrive e si pubblica sotto l’influenza di princìpi eteronomi. La presenza di poesie, drammi e romanzi aderenti al gusto della maggioranza, che si limitano a riprodurre l’esistente o che si conformano ai desiderata di un’autorità politica, tendenzialmente destinate, perciò, a scomparire dal canone, ha conseguenze su quanto si produce nell’altra metà campo: chi ambisce a essere letto dai posteri, a figurare nei manuali di scuola e non solo nei cataloghi delle biblioteche nazionali, definisce i tratti delle proprie opere in primo luogo per negazione, come rovescio di quanto di più caduco viene scritto e letto nel suo tempo.
3. Consacrati e nuovi entranti: le avanguardie
L’antitesi tra autonomia ed eteronomia non è l’unica modalità di conflitto nei campi letterari. La posizione di chi ha raggiunto prestigio e riconoscimento è continuamente minacciata da scrittori, critici ed editori nella fase iniziale della propria carriera, che aspirano a conquistare il capitale simbolico di cui sono ancora privi proponendo nuove regole dell’arte che contrastano con i valori incarnati nelle opere (e nelle persone) dei dominanti del campo. Ma come si affermano nuove regole in un campo letterario?
Una delle strategie più efficaci per consolidare un nuovo nomos è l’alleanza: tra scrittori e scrittori, tra scrittori e critici, tra scrittori, critici, traduttori ed editori, con intellettuali e artisti di campi contigui. Questi gruppi di alleati danno vita a riviste, proclamano poetiche in un manifesto, fondano case editrici o orientano le scelte degli editori, interpretano in maniera innovativa i classici del canone nazionale o internazionale, traducono e promuovono opere straniere ancora ignote. Si tratta di strategie diverse, che però creano tutte l’immagine di un fronte unito e compatto: le idee e le opinioni degli individui che scrivono su una rivista, firmano un manifesto o collaborano con una casa editrice vengono percepite come un’emanazione del gruppo, invece che dei singoli.
In questo libro chiamerò “avanguardie” queste alleanze di nuovi entranti, servendomi del termine in maniera più estesa rispetto all’uso invalso per indicare gruppi storicamente determinati (le avanguardie storiche di inizio Novecento – futurismo, dadaismo, surrealismo – e le neoavanguardie degli anni Sessanta). Nella mia trattazione, in altre parole, la redazione della rivista «La Ronda» figurerà come un’avanguardia né più né meno del futurismo.
Questo uso del termine per indicare il raggruppamento, le strategie e l’elaborazione normativa di alleanze di nuovi entranti mi consente di fare a meno di un altro concetto-scorciatoia caratteristico del racconto storico-artistico: quello di “movimento”. Le storie letterarie tendono a presentare questi raggruppamenti strategici in maniera essenzialista, raccontando gli “ismi” che così frequentemente li denominano come organismi biologici che nascono, si sviluppano e muoiono, o come soggetti dotati di intenzionalità e coscienza, che si avvicendano e si scontrano. Questo trattamento verbale e narrativo trascura il fatto che movimenti e “ismi” non hanno altra consistenza storica che quella di vessilli o bersagli nelle battaglie per la conquista del capitale simbolico. Nella storia non agiscono infatti i concetti ma gli individui, che si servono degli “ismi” in cui si inquadrano (o sono inquadrati) per esprimere prese di posizione e interessi che negli stadi iniziali delle traiettorie artistiche tendono a trovare un terreno di intesa nell’opposizione all’esistente. Le alleanze di nuovi entranti sono infatti più cementate dalla necessità di contrapporsi alle regole dell’arte invalse che da obiettivi condivisi; in seguito, man mano che alcune personalità del gruppo si affermano, consolidando la propria posizione e il proprio prestigio, i progetti creativi cominciano a differenziarsi in un processo di individuazione che finisce per dissolvere il gruppo degli esordi.
4. Storia e geografia: le capitali
La pubblicazione nel 1992 delle Règles de l’art ha suscitato discussioni sulla possibilità di adottare quel modello per comprendere spazi e tempi diversi dalla Parigi della seconda metà del XIX secolo. Negli ultimi trent’anni diversi studi hanno sottoposto a verifica l’approccio di campo alla storia letteraria su altri contesti nazionali, mostrandone la valenza euristica ma anche la necessità di affinare, complicare e integrare quel paradigma. Le ricerche su casi europei e non europei hanno messo in luce quanto eccezionale sia il caso di studio affrontato da Bourdieu, a partire dal fatto che il campo letterario francese del tardo Ottocento è caratterizzato da un accentramento geografico che non si riscontra in nessun’altra nazione: tutti coloro che contano vivono a Parigi, tutto ciò che conta avviene a Parigi.
Nessuna città europea – neppure Londra, Vienna o Madrid – è “capitale” nel senso in cui lo è quella francese: una città, cioè, in cui si concentrano, nelle parole dello storico Christophe Charle, «tutte le funzioni di comando (politiche, economico-finanziarie, intellettuali)»; una metropoli che attrae e in cui risiedono gli individui più dotati di ogni specie di capitale sociale, i dominanti di ogni campo. Anche a processo di nazionalizzazione avanzato o compiuto, nella maggior parte dei paesi europei le capitali delle entità statali pre-nazionali hanno infatti continuato a esercitare alcune delle funzioni che in Francia si accentrano a Parigi: e ciò vale a maggior ragione in paesi dalla tardiva unificazione politica come l’Italia e la Germania.
Dal 1871 Roma e Berlino sono le capitali politiche delle due nazioni, ma nel quadro di un sistema di ripartizione dei capitali sociali, e quindi del potere, rimasto policentrico fino a oggi. Le due città non svolgono subito, e non svolgono con continuità nel secolo e mezzo successivo, il ruolo di capitali nei diversi ambiti culturali, e in particolare quello di capitali letterarie: i centri urbani, cioè, dove scrittori, critici, traduttori e funzionari editoriali si trasferiscono facendone snodi fondamentali delle biografie; dove si addensano luoghi d’incontro come salotti, caffè, redazioni; dove hanno sede le case editrici, i quotidiani e le università che dànno lavoro ai letterati; dove si concentrano i settori più colti e aggiornati del pubblico.
Se Parigi, ma anche Londra e New York, possono essere considerate le capitali letterarie dei rispettivi contesti nazionali, casi come quello italiano e tedesco mostrano un panorama più complesso. Città diverse dalla capitale politica possono competere e avvicendarsi nel ruolo di capitale letteraria; alcune possono specializzarsi in una funzione specifica, per esempio come centri dell’editoria nazionale. Capoluoghi locali possono esercitare un potere di attrazione sulle biografie intellettuali in quanto punti nevralgici del sistema di formazione superiore: i centri universitari attraggono gli aspiranti letterati, e nella città degli studi nascono collaborazioni, riviste e case editrici.
Nella seconda metà del Novecento il policentrismo della letteratura italiana è stato oggetto di una ricca tradizione storiografica, che ha dato vita a importanti operazioni collettive. Il saggio di Carlo Dionisotti Geografia e storia della letteratura italiana (1967) è stato seminale sia per la Letteratura italiana curata per Einaudi da Alberto Asor Rosa (1982-89)
sia per l’Atlante della letteratura italiana (2010-12) progettato dallo stesso editore all’inizio del nuovo millennio. Rispetto all’opera curata da Asor Rosa, che pone maggiormente l’accento sulle culture letterarie regionali, carte e mappe dell’Atlante evidenziano il protagonismo dell’«Italia delle cento città […]. Sono loro, le città, il cardine intorno al quale ha ruotato la storia (non soltanto letteraria) del nostro paese». Per i decenni successivi all’Unità la distribuzione geografica del capitale letterario tra le città italiane si può rappresentare come un «monocentrismo alternato»: «di volta in volta uno è il centro culturale della nazione finalmente unificata, ma non riesce a durare più di qualche decennio, e spesso meno». In questo libro dinamizzerò ulteriormente questa prospettiva: mostrerò come in diversi momenti storici le proposte di rinnovamento delle regole dell’arte siano plurime e in conflitto tra di loro, e come la rivalità tra avanguardie localizzate in città diverse si possa leggere come un conflitto tra aspiranti capitali della letteratura italiana.
5. La dimensione transnazionale
A tre anni dall’uscita di Geografia e storia della letteratura italiana Dante Isella commenta così l’impianto storiografico delle ricerche di Dionisotti:
Fare storia della nostra letteratura equivale a indagare i complessi rapporti di dare e avere che corrono, alle diverse altezze cronologiche, tra i vari centri culturali della penisola e del continente , riconoscere il gioco di spinte e controspinte interne ed esterne, su cui si regge quella storia.
La storia della nostra letteratura è in effetti caratterizzata fin dalle origini tanto dall’intreccio tra culture cittadine-regionali e modelli linguistico-letterari nazionali, quanto da una dimensione transnazionale fatta di flussi di traduzioni, testi scritti da italofoni in lingue diverse dall’italiano, opere italiane prodotte fuori dal territorio nazionale, scambi e rapporti egemonici (in un senso e nell’altro) con sistemi letterari stranieri.
Negli ultimi vent’anni anche le ricerche innestate sul paradigma offerto dalle Regole dell’arte si sono occupate dello studio dei rapporti tra letterature nazionali e/o in lingue diverse[21]. Questo allargamento a nuovi oggetti ha messo nuovamente in luce quanto fosse eccezionale il caso di studio affrontato da Bourdieu: il campo letterario francese del secondo Ottocento e del primo Novecento non è solo caratterizzato da un monocentrismo unico in Europa, ma è anche posizionato al vertice di una gerarchia transnazionale. La letteratura francese è la più prestigiosa su scala globale, e la sua capitale attrae letterati da tutto il mondo perché a Parigi un progetto artistico può aspirare a ottenere la massima legittimità e autorevolezza a livello internazionale.
Tra il diciassettesimo e la prima metà del ventesimo secolo Parigi è la capitale della «Repubblica mondiale delle lettere», come Pascale Casanova ha definito lo spazio di relazioni, concorrenza e conflitti che connette i campi letterari nazionali. Questo spazio è strutturato in maniera gerarchica da un’ineguale distribuzione di capitale simbolico, che premia i campi letterari più antichi e più ricchi di classici universalmente riconosciuti, e le letterature scritte nella lingua egemone a livello globale. Nella capitale del campo letterario internazionale passa, secondo la potente metafora coniata da Casanova, il “meridiano di Greenwich” della letteratura, che segna il tempo della modernità letteraria, e in base al quale si può misurare quanto si fa altrove rubricandolo come sorpassato-arretrato e/o provinciale.
All’inizio del Novecento, l’Italia è una provincia situata alla semi-periferia dell’impero letterario parigino. L’indicatore più significativo di questa subordinazione è il bilinguismo delle élites : nei primi decenni del ventesimo secolo non c’è intellettuale italiano che non sia in grado di leggere e scrivere, se non di parlare fluentemente il francese. Opere e scrittori francesi o attivi a Parigi sono i più discussi sulle riviste italiane; alcune istituzioni letterarie si modellano sui corrispettivi d’oltralpe; essere tradotti in francese è un investimento cruciale, perché il riconoscimento nella capitale internazionale dell’arte rimbalza immediatamente da Parigi al resto del mondo.
Anche i rapporti con altre letterature sono spesso il risultato di una mediazione francese: sia in senso letterale, poiché ancora negli anni Dieci del secolo è prassi corrente tradurre non dalla lingua originale ma da una versione francese; sia nel senso che dibattiti parigini su autori e opere stranieri hanno immediata risonanza in Italia. Se per tutti gli italiani colti la conoscenza di quanto è tradotto e dibattuto a Parigi è un prerequisito per partecipare alla vita letteraria nazionale, chi aspira a rinnovare le regole dell’arte può servirsi dell’importazione di opere e autori stranieri sconosciuti al mercato francese come strategia di distinzione: è questo il motivo per cui l’avanguardia fiorentina dedica tanto interesse alla letteratura tedesca (→ cap. 1), e i nuovi entranti che negli anni Trenta si impegnano per la rilegittimazione del romanzo aprono gli orizzonti del dibattito nazionale in una prospettiva che si estende da Mosca a New York (→ cap. 4).
Anche al polo di produzione di massa domina la letteratura francese, letta nella lingua originale da parte del pubblico più colto, in traduzioni prive di intenti letterari da parte di quello più popolare. Ed è proprio in questa area del campo che è possibile scorgere i primi segni del trasferimento del meridiano di Greenwich della letteratura da Parigi a Londra-New York: a partire dagli anni Venti la letteratura di lingua inglese comincia a predominare nelle riviste e collane più commerciali. Per le avanguardie del polo di produzione ristretta, invece, le relazioni con Parigi rimangono cruciali per tutta la prima metà del secolo; gli artisti e gli scrittori che le compongono possono infatti accelerare il processo di acquisizione del capitale simbolico in patria se riescono ad acquisire prestigio e riconoscimento in quello che è ancora il centro mondiale delle arti e della letteratura.
6. Com’è fatto questo libro
L’obiettivo dichiarato dal sottotitolo di questo libro – ricostruire la storia e la geografia del campo letterario italiano di più di un trentennio – è ambizioso e difficilmente dominabile dalle energie e risorse di una sola persona. Il mio lavoro non avrebbe potuto raggiungere una conclusione senza la collaborazione e il confronto pluriennale con un gruppo di ricerca e senza una delimitazione più precisa del proprio oggetto. Il filo d’Arianna che mi ha guidata sono state le traiettorie delle avanguardie che si sono succedute al polo di produzione ristretta: ho potuto così avvalermi del lavoro già compiuto da altri, dato che su questi gruppi e su questi attori si è concentrata l’attenzione della ricchissima produzione storiografica e critica sul primo Novecento. Allo stesso tempo, le prese di posizione di questi esordienti contro i gruppi, i personaggi e le opere più conformisti nei confronti del gusto del pubblico o delle richieste della politica sono quasi sempre così viscerali ed esplicite da consentirmi di non perdere mai di vista quello che accade nell’altra metà del campo. Ogni titolo di capitolo mette così a fuoco le alleanze di nuovi entranti in competizione tra loro, le città in cui intessono le loro reti di relazioni, l’arco cronologico della loro ascesa.
La data con cui si apre il primo capitolo è il 1902, l’anno in cui Benedetto Croce pubblica l’Estetica, il primo volume della Filosofia dello spirito, la sua opera di maggior ambizione. Come ogni cesura storiografica nel tessuto del tempo, questa data è da intendersi come indicativa, e nella sostanza più profonda arbitraria: avrei potuto cominciare la mia esplorazione un decennio prima, o chiuderla un decennio dopo. L’inizio del secolo, tuttavia, non è solo un suggestivo appiglio cronologico ma è anche il torno d’anni in cui si avviano dinamiche nuove nel campo letterario italiano: Croce e gli intellettuali fiorentini che lo imitano creano i presupposti per la polarizzazione del sistema editoriale tra un circuito di produzione ristretta e uno di massa; a Milano Marinetti orchestra una messa in campo totale delle strategie di sovversione sperimentate fino a quel momento dalle alleanze di nuovi entranti, forgiando la prima avanguardia storica europea.
Ancora meno puntualmente va intesa la data con cui l’ultimo capitolo di questo libro dichiara di chiudersi. Al 1936 si potrebbe sostituire per esempio il 1935, l’anno della guerra d’Etiopia che trasforma gli assetti di potere nel Partito nazionale fascista, e di conseguenza la sua politica culturale, provocando significativi riallineamenti in ambito letterario; ho scelto invece il 1936 perché è l’anno in cui escono gli ultimi numeri della rivista fiorentina «Solaria». Tra i titoli dei capitoli e dei paragrafi di questo libro ricorrono spesso nomi di periodici: è nelle riviste, infatti, che si possono individuare più facilmente le prese di posizione dei letterati, i loro trattati di alleanza e dichiarazioni di guerra. Mi sono concentrata sulla schedatura delle testate il cui ruolo cruciale nella storia culturale del Novecento è già stato messo a fuoco da una ricca tradizione di ricerca avviatasi a partire dagli anni Sessanta: un’area di studi di koiné marxista, che si è servita delle riviste come di uno strumento fondamentale per ricostruire la storia degli intellettuali e delle ideologie. Ricerche come quelle di Alberto Asor Rosa, Umberto Carpi, Romano Luperini e Luisa Mangoni hanno posto in relazione le prese di posizione degli scrittori con le trasformazioni economiche della società italiana, con i conflitti di classe che ne sono derivati e con l’elaborazione politica e culturale di tali cambiamenti. In questi studi l’accento ricade prevalentemente sul contenuto dei testi, sull’evoluzione ideologica e di poetica dei loro autori, sul riflesso di tale evoluzione nelle opere creative, mentre vi sono tendenzialmente trascurati i contesti di produzione materiale dei periodici insieme ai dettagli biografici dei redattori e alla rete di relazioni da essi intrecciata. L’approccio monografico prevalente ha inoltre contribuito ad oscurare l’acuta consapevolezza che gli autori delle riviste avevano di quanto si scriveva altrove e, di conseguenza, quanto le loro prese di posizione vadano interpretate in un contesto più ampio del percorso intellettuale dei singoli intellettuali o gruppi. In questo libro ho cercato di prestare più attenzione all’antagonismo tra gli individui e i gruppi che tra le ideologie e le poetiche; ho dato maggior rilievo alla specificità del conflitto letterario, vale a dire alle battaglie per la conquista del capitale simbolico, non interamente riducibili a conflitti economico-sociali più ampi; ho approcciato le riviste non come oggetti a sé stanti ma nel loro posizionamento reciproco, lavorando anche su periodici di più vasta diffusione, posizionati a metà dello spettro che si divarica tra le petites revues delle avanguardie e le riviste per il consumo letterario passeggero.
Le prese di posizione di scrittori e critici, che nelle riviste tendono a essere esplicite, sono deducibili implicitamente anche dai cataloghi editoriali, spesso selezionati dalle stesse persone, e si iscrivono nella forma delle opere letterarie attraverso la loro coerenza o discordanza con le regole dell’arte propugnate dai vari gruppi in competizione; le sezioni di ogni capitolo dedicate ai testi esemplari illustrano come le tensioni del campo letterario si traducano nella prassi della creazione. L’aggettivo nel titolo è da intendere non solo come sinonimo di “significativo”, ma intende anche segnalare come queste analisi testuali offrano saggi esemplificativi di una direzione di ricerca che questo libro ha solo cominciato ad esplorare.
Le altre sezioni ricorrenti in ogni capitolo sono dedicate alle traiettorie e ai repertori: le prime forniscono i dati biografici essenziali per comprendere le posizioni occupate successivamente da alcuni protagonisti dei vari capitoli; le seconde mostrano come l’imposizione di nuove regole dell’arte passi anche attraverso l’attivazione più o meno duratura di specifiche porzioni del canone nazionale e transnazionale.
I quattro capitoli seguono un andamento ricorrente: individuate le avanguardie in ascesa, ne ricostruisco la traiettoria attraverso il posizionamento differenziale nei confronti dei predecessori, di altri pretendenti alla successione e delle sollecitazioni eteronome che agiscono con più forza nel campo in quel momento. Da questa serie di rifiuti e di opposizioni ricavo i set di regole dell’arte che riescono – o non riescono – a imporsi negli anni successivi, per seguire infine la traiettoria dei membri del gruppo che hanno avuto accesso alla consacrazione.