«Nel 1972 cominciavo a riprendermi dall'esperienza elettrica. Mentre mi trovavo
ad Amsterdam per suonare in
un trio acustico, ricevetti una telefonata da Manfred Eicher,
che mi chiese se fossi interessato a registrare un disco in piano
solo per la Ecm. Gli risposi che
non avevo mai fatto una cosa
del genere e avrei avuto bisogno di un po' di tempo per pensarci». A parlare è Paul Bley
(1932-2016) nell'autobiografia
Liberare il tempo, scritta nel
1999, ma edita in Italia solo ora
da Quodlibet Chorus. La risposta del pianista al geniale produttore, che proprio allora comincia a farsi conoscere a livello planetario, per un'audience
sempre più pop, arriva quasi
per caso «(...) un giorno, durante le prove in trio, stavo facendo
sentire agli altri due musicisti
com'erano le parti scritte di un
brano quando, invece di fermarmi, pensai di andare avanti
e provare a suonare tutto il pezzo da solo. Con mia grande sorpresa, mi trovai ancora meglio
che non suonando in trio. Telefonai a Manfred e gli dissi che
ero pronto a fare un tentativo. Il
risultato ful'album Open, to Love, che fa parte della serie di incisioni per piano solo della Ecm
che comprende anche i lavori
di Chick Corea e Keith Jarrett».
LA TRIADE
Dunque mezzo secolo fa - il primo febbraio 1973 - esce in tutto
il mondoOpen, to Love, registrato, in un solo giorno, 1'11 settembre 1972, presso l'Arne Bendiksen Studio di Oslo; a vent'anni
dall'esordio discografico Introducing Paul Bley (Debut) in trio
con una ritmica straordinaria
(Charles Mingus e Art Blakey)
e a dieci dall'album della definitiva consacrazione, Footloose!
(Savoy) sempre in tre ma con
Steve Swallow e Pete LaRoca,
l'improvvisatore canadese presenta quello che ormai da tutti
viene ritenuto il disco maggiore, se non addirittura l'unico vero capolavoro, senza nulla togliere a 33 giri precedenti come
Barrage (Esp, 1964), Ramblin'
(Byg, 1966), The Paul Bley Synthesizer Show (Milestone,
1970), Dual Unity (Freedom,
1971) o i successivi Quiet Song
(LA., 1974), Live at Sweet Basil
(Soul Note, 1988), Not Two, not
One (Ecm, 1998), About Time
(Justin Time, 2008) per citare i
principali in un'ampia discografia, non immensa come
quelle di molti colleghi, ma senza dubbio ricca di incontri, giacché nel corso di una carriera
lunga oltre mezzo secolo, egli
ospita sia giovani talenti sia
maestri indiscussi, dai giovani
Ornette Coleman, Don Cherry, Pat Metheny, Jaco Pastorius ai navigati Chet Baker, Lee
Konitz, John Surman, Jimmy
Giuffre, Gary Burton e via citando. I sette brani e i quarantadue minuti di Open, to Love risultano fondamentali perché
storicamente inseribili ora nella triade delle opere manifesto
dell'Ecm Pianism, una summa
artistica raggiunta soltanto
dall'innnovativo Piano Improvisations di Chick Corea e dal
fortunato Facing You di Keith
Jarrett. I tre long playing hanno
in comune il sound cristallino
del pianoforte medesimo, cosi
come predetto o imposto dall'esigente Eicher: un'acustica che
all'epoca appare il vertice della
tecnica di registrazione, mentre oggi risulta invece un po' datata, anche se da contestualizzare. Tuttavia Bley qui si distingue dai ben più celebrati statunitensi, nell'esternare un'onestà intellettuale profonda, di
cui si avvertono echi propositivi nel trattare un repertorio per
così dire coniugale: i cinque
pezzi della prima e seconda moglie, Carla e Annette, già eseguiti in concerto, si rivelano non
tanto omaggi affettuosi quanto
piuttosto momenti intimi di un
percorso musicale, dove Paul
regala a ciascuno un'atmosfera
indipendente dalla diversa origine.
Tra i primi esempi - nel jazz -
di puntinismo spaziale, tra vuoti e pieni, nel centellinare le note, Open, to Love a un ripetuto
ascolto, rivela altresì un ritorno
a certi suoni proto-ambient,
frutto dell'esperienzaintrio degli anni Sessanta, aggiungendo
un retrogusto metallico nell'approccio alla tastiera, con il diretto pizzicato sulle corde dello
strumento, che, all'epoca, fa
storcere il naso ad alcuni critici,
così come due anni prima l'uso
del sintetizzatore (ancora inedito nel jazz) sciocca i benpensanti. Ogni pezzo marca per così dire un aspetto emozionalmente
spirituale, dentro una weltanschauung in grado di mutare in
intime dissonanze sia il peso
del silenzio sia l'astrazione del
lirismo.
I BRANI
Sulla rivista americana «All Music» Thom Jurek assegna il massimo punteggio (cinque stelle) a
Open, to Love, giudicandolo
non solo il lavoro più maturo e
visionario di Bley, tra purismo e
brillantezza, ma soprattutto
una delle registrazioni per piano solo più influenti nella storia
del jazz, in particolare nel forgiare un Ecm Style, parlando di
«pianismo jazz come un nuovo
tipo di poetica sonora (...) che
tratta l'estensione della linea
compositiva tanto quanto il
poeta tratta la linea come l'estensione del respiro». Quale
pendant, la britannica Penguin
Guide to Jazz enuncia: «C'è, forse, inevitabilmente un accenno
di déjà-vu qua e là, ma il terreno
è sempre troppo interessante
perché diventi un problema».
Basta comunque scegliere
tre brani per comprendere la
grandezza del disco: Ida Lupino - che Carla Bley dedica in origine all'omonima attrice femminista - vede gli armonici della canzone svincolati dalla fonte, per consentire inserimenti
blues o per citare l'ostinato alla
Erroll Garner tra sfumature pastorali e eleganze timbriche, fino a raggiungere gli accordi tonici nel registro centrale. Da
qui un'improvvisazione appena forzata nell' astratto sulla mano destra, col suonare una o
due note extra a percussione onde evidenziare il viscerale lirismo nel corpo della melodia.
Started di Paul stesso (basatosi sul vecchio standard I Can't
Started) illustra sfacciatamente
le marcate influenze della Seconda scuola viennese sul senso dell'armonia e del contrappunto, ricordando i pezzi per
piano solo di Arnold Schöenberg nell'impegno dissonante
e nella collocazione del glissando, benché qui Bley suoni jazz e
improvvisi sul proprio tema
mentre ribalta melodia e timbro su se stessi fino aun coinvolgimento tonale nel registro medio.
Infine Nothing Ever Was,
Anyway di Annette Peacock
contempla il pieno uso di un elemento impiegato durante l'intera registrazione: lo spazio
con l'annessa capacità di proporre una sorta di nozione di consonanza (o dissonanza) dalla più semplice delle melodie;
in tal senso le note appaiono di
poco collegate l'una all'altra in
una sequenza più o meno lineare, mentre Bley estende la connessione fino al punto di rottura adoperando il proprio senso
di relazione appunto spaziale
in armonia con il silenzio; allungato il sistema tonale, Paul riesce a fluttuare quanto basta nella frase successiva, come una
traccia spettrale di un'altra melodia o una diversa lirica lontana, che tenta di imporsi su quella attuale, sebbene da allora cessi di esistere.
Ma sono tre pezzi - come gli
altri quattro presenti nel disco e
come dunque l'intero album -
che illustrano un'aura particolarissima, ottenuta dilatando il
tempo, fino a segnare un ritmo
da Recherche di Marcel Proust
che dà a ogni nota e a ogni frase
un precipuo respiro psicologico, esaltando la strategia tipica
di Paul Bley di «ricordare liberamente» la teoria e la prassi del
fluire dell'improvvisazione.
Open, to Love resterà un unicum nel corpus di opere discografiche, se si pensa che appena prima con Improvisie, Dual
Unity, Scorpio con tre trii diversi e subito dopo in Paul
Bley/NHOP e Jaco rispettivamente in duo e quartetto prende altre direzioni, mentre dei
susseguenti album di piano solo - ben diciannove dal 1974 al
2008, tra cui i notevoli Axis, Tango Palace, Solo Piano, Blues for
Red, Caravan Suite, Oslo Concert - non sfiorerà più tali vertici
espressivi.