Dopo la pubblicazione dei mio primo libro mi sono
successe varie cose molto romanzesche, sono stato
malpelizzato dai parenti e rapito dalle aliene, ma
l'apice del postmodernismo comico l'ho raggiunto
quando mi sono trovato a dare un esame con il
critico che mi aveva appena recensito e lui mi ha
sacrosantamente bocciato. Ma andiamo con ordine. Al tempo
dell'eccezionalità di massa chiunque abbia letto un libro scrive
almeno una tetralogia i soli a non voler essere scrittori sono
quelli che in un certo senso lo diventano e, una volta firmato il
contratto di edizione, scoprono come l'acqua calda che scrivere non
è un lavoro e corrono a cercarsene uno. A dire il vero, prima di
esordire, io alcuni mestieri immaginari li ho anche svolti: il
prostituto sentimentale delle studentesse borghesi, il mangia
a
poco, il ragno domestico, ma a trent'anni circa, dopo un decennio
di scrittura non retribuita e l'anticipo sul primo libro per un totale
retroattivo di quindici euro al mese scarsi, mi sale la paura della
barbonizzazione e decido di insegnare.
Ho una laurea magistrale in filosofia buona per incartarci le
castagne arrosto e se voglio insegnare un po' di alfabeto ai
minorenni armati mi servono ancora molti crediti. Visto che sono
un digressivo, un perifrastico, cioè un idiota, decido di prenderla
larga e sterrata e mi iscrivo a una seconda magistrale lampo in
filologia e critica letteraria. Bergamo mi ha dato solo multe
e
sacramenti papisti, mentre a Milano ci ho già studiato e in cinque
anni ne ho persi sette spacciando manoscritti, e allora opto per
Trento, anche perché c'è Giunta e soprattutto Giglioli, l'autore di
Critica della vittima, e vorrei assistere alle sue lezioni almeno una
volta per poterlo raccontare ai nipoti o, più probabilmente, ai miei
futuri carcerieri psichiatrici. Le lezioni di Giglioli di letteratura
comparata si rivelano notevolissime, si sente il respiro
cosmobibliografico, il tartassamento analitico della mediocrità.
Ricordo in particolare il cazzeggio arguto, alla Labranca, come
quando per spiegare la provvidenza manzoniana Giglioli dice che
assomiglia a Godzilla: è una forza antieconomica, uccide migliaia di
persone per farne sposare due. Io ovviamente non intervengo mai,
sono troppo intimidito e mi nascondo sotto le ascelle protettive
delle studentesse.
A metà del secondo semestre però devo comunque lasciare perché
esce il mio libro. Per mesi presento a casaccio, dove mi offrono
almeno un letto, un pavimento, una piastrella. Sotto la sede
trasteverina di Quodlibet subisco un attentato impolitico a opera
di un gruppo di lettura composto da fascisti femministi, vengo
preso in prestito sessuale dalle bibliotecarie, ma in rotto questo.
non ho tempo di studiare e allora studio solo la sera e dopo un po'
studio solo la notte, nel sonno.
A pochi giorni dall'esame, mentre cerco di capire come finiscano
i
libri senza leggerli, se i promessi sposi si sposano o invece vanno
a
Milano e si omosessualizzano, appare sul «Corriere» la recensione di
Giglioli, miracolosa e immeritata come la Madonna a Teheran, una
pagina piena di complimenti che non sto qui a ripetere ma che
finiscono tutti con -ante. Il giorno dell'appello parto per Trento
completamente impreparato ma con un saggio di due chili dal
titolo tirapugni Purtroppo Manzoni è un grande scrittore, mi invento
neologismi ciucchi, discorsi di comparatistica da lavasecco.
Finalmente sarò accolto dagli accademici e smetterò di sentirmi
solo e pazzo e strego. Io e Giglioli ci siamo già visti, almeno per
iscritto, ma capisco subito che non dobbiamo parlarne, un po' come
se ci fossimo incontrati in un posto equivoco, indichiarabile, la
sede di casa Pound, una balera di scambisti. Vengo prima perquisito
culturalmente dal collega di poesia, mi chiede cose manualistiche
e
io confondo Montale col calorifero, la destra con la sinistra, sia in
sede cognitiva che elettorale, e lui giustamente scuote la testa,
mette in dubbio la mia preparazione, la mia licenza media, il mio
pollice opponibile. Mi bocciano all'unanimità, mi tassonomizzano
davanti a tutti come asino e alla fine la sola cosa che Giglioli mi
dice mentre piagnucolo è, autocitandosi addosso: «Sì ma adesso
non faccia la vittima». Torno a casa e cerco di darmi alcune morali
della favola e mi convinco, riscrivendomi e romanzandomi, che
Giglioli mi ha bocciato non solo perché non sapevo niente ma
anche per insegnarmi che dopo l'esordio uno resta lo stronzo di
prima o, detto in similitudine arguta che la letteratura e la vita si
sfiorano appena ma non si toccano, come le parole e le cose o la
lingua e il gomito.