In uno dei suoi ultimi scritti l’architetto e teorico olandese Rem Koolhaas (edizioni Quodlibet, Macerata) affronta una nuova teoria della città tentando di definire gli spazi oggi in costruzione e definendoli junk space.
Si tratta di una concezione dello spazio-spazzatura-informe privo di qualità architettoniche ma carico di utilità economiche: è dilatabile all’infinito, non ha quindi determinazione formale propria. Può questo spazio allargarsi secondo le richieste e assumere carattere di volta involta diverso. Ne è esempio sintomatico il sistema dei grandi centri commerciali dove si può incontrare il ristorante messicano accanto alla gastronomia tedesca dei würstel prima del commerciante di occhiali che precede quello di vestiti sportivi per il viaggio nel deserto.
Un mondo popolato da acquirenti ma anche da puri passeggiatori che si siedono al caffè Napoli per leggere il giornale. Di notte tutto si svuota, arriva un’altra umanità per le pulizie, la rimessa in ordine delle merci e la mutazione dei decori. All’indomani il ristorante messicano può essere sostituito da una libreria specializzata in giardinaggio inglese. Ovviamente è cambiato con la medesima celerità il decoro corrispondente.
Tutto si svolge nell’astrazione d’una aria condizionata perenne che nega stagioni e mutazioni del bello o cattivo tempo. Un mondo irreale totalmente reale. Questo sarebbe il destino verso il quale corre la parte principale dell’umanità, visto che dall’inizio del nostro glorioso nuovo secolo oltre il 51% degli esseri umani vive in città. Questo corrisponderebbe alla crescita delle città nuove, da quelle che sorgono come funghi in Cina a tutte le altre che un globo terrestre in costante evoluzione e crescita demografica si trova costretto a progettare, ivi comprese le favelas che sarebbero junk space primordiale sia per la loro schifezza che per la loro infinita dilatabilità. La teoria sarebbe affascinante se non si fondasse su un equivoco e cioè che la parola città non ha affatto un significato unico. Siena è una città in tutti sensi della parola anche se i suoi abitanti sono in numero pari a quelli d’un solo block di Shanghai. Alcuni paesoni della nostra penisola hanno cambiato la carta da lettere dell’amministrazione comunale per chiamarsi «Città di...» (riempire i puntini a scelta) anche se il loro numero di abitanti è quello d’un grattacielo di Bombay. Solo gli abitanti di Tarquinia, una delle città dove nacque la civiltà del mondo, resistono e dicono tuttora, quando vanno in centro, «vado in paese». È proprio lì che sta la differenza. Le vecchie città d’Europa appartengono a un caso diverso poiché hanno i centri storici nei quali, strato dopo strato, recupero dopo catastrofe, s´è accumulata lo loro storia. Se sono diventate così rapidamente brutte, il fenomeno è dovuto alla crescita incontrollata delle periferie dove una qualità costruttiva rapida e sconclusionata ha cancellato la secolare passione per l’architettura. Probabilmente non vi erano altre strade percorribili in un paese che è passato in un secolo da circa 20 milioni di abitanti al triplo. Occorreva trovare un tetto e al più presto. Ma non è questo junk space, è solo un errore di percorso che va rimediato con una vastissima operazione di chirurgia plastica, forse il destino massimo dei futuri nostri lavori pubblici, forse la fortuna d’una industria edilizia tuttora trainante dell’economia. Tutto il mondo non è affatto uguale e condannato al medesimo destino. Si possono immaginare laboratori alternativi alla visione apocalittica di Koolhaas e rimettersi a pensare che l’architettura è una delle nostre pratiche linguistiche naturali, a condizione beninteso di capire di cosa si tratta. Il junk space si costruisce con una unica attenzione, quella rivolta all’ammortamento finanziario dell’investimento. Ammortizzata la spesa, si demolisce. L’architettura è quell’altra cosa, quella nella quale si spende di più di quanto non chieda la mera utilità perché ci si illude comunque d´una certa sua propensione all’eternità.