Aveva avuto un mallevadore d’eccezione,
Giani Stuparich (Trieste
1891 - Roma 1961), firmatario
di un volume di Racconti usciti
nel 1929 a Torino presso i Fratelli
Buratti la cui direzione editoriale
era affidata a un poligrafo
allora di una certa fama, Mario
Gromo. A costui si era rivolto per l’appunto
Eugenio Montale che, non bastasse,
in seguito aveva recensito su «Solaria»
il libro del suo amico triestino lodandone
il talento di narratore lirico e la perfetta
misura dello stile («più elegiaco che internamente
dialettico, più musicale che
ironico scrutatore di commedie umane») e però rammaricandosi di un eccesso
di prudenza nel rifiuto delle strutture
architettoniche e delle vaste campiture
che sono viceversa proprie della forma-
romanzo. Stuparich risponderà a
Montale nel 1941 pubblicando un romanzo-
romanzo dal titolo Ritorneranno,
vasto affresco di ambizioni epiche, storia
della sua famiglia di irredentisti, specchio
della fede di mazziniano con venature
socialisteggianti e tuttavia un’opera
di impianto troppo rigido, troppo deliberatamente
costruito per poter attingere
l’equilibrio e la grazia dei racconti pregressi:
uno squilibrio, questo, che sarà in
sostanza ribadito nel ’53 da un secondo
romanzo, Simone.
Autobiografica è anche la materia relativa
alle sue misure brevi, racconti o
novelle, pure se l’autore fa al principio
una certa fatica a smarcarsi dallo stereotipo
dell’ex collaboratore della «Voce» e
agitatore interventista insieme con suo
fratello Carlo e l’amico-maestro Scipio
Slataper, nonostante la netta avversione
al regime fascista (durante il ventennio
Stuparich si reclude dividendosi fra
il suo villino a Scorcola, sulla collina di
Trieste, e le aule del Ginnasio «Alighieri
» dove insegna di Lettere) e nonostante
la pubblicazione nel ’31 del suo diario
bellico, Guerra del ’15, che racconta la
guerra dal basso della trincea, libro di viva
verità, scevro di retorica patriottarda
che un classico della nostra storiografia
(Mario Isnenghi, Il mito della Grande guerra,
1970) definisce come il segno sinistro
di una ferita immedicabile e qui va aggiunto
che l’interventismo di Stuparich
non era stato affatto quello di D’Annunzio
e Corradini ma, semmai, quello di
Gaetano Salvemini.
Tale è il profilo etico di intellettuale democratico
e cosmopolita, tali la sua dignità
e il riserbo, da ridimensionare nel
senso comune dei lettori il rango propriamente
letterario di colui che l’amico Pier
Antonio Quarantotti Gambini, post mortem,
ricordò in questo modo: «Volle essere
e fu un uomo giusto». Negli anni ristampato
solo sporadicamente (il volume
complessivo dei racconti, Il ritorno del
padre, esce da Einaudi in punto di morte,
nel 1961, a cura di Quarantotti Gambini
e l’antologia L’isola dallo stesso editore
nel ’69 nelle «Letture per la scuola media
» a cura di uno studioso benemerito,
Renato Bertacchini, autore anche di una
pionieristica monografia, Stuparich, da
Nuova Italia 1968), va dunque salutata
con soddisfazione l’iniziativa di Quodlibet
che lo sta riproponendo integralmente
alla luce della filologia (un Fondo Stuparich
giace nell’«Archivio degli scrittori
e della cultura regionale» presso l’Università
di Trieste) grazie all’ottima cura
di Giuseppe Sandrini, il quale firma adesso
la nuova edizione di Un anno di scuola
(Quodlibet «Storie», pp. 98, € 12,00).
Si tratta, per giudizio unanime, di uno
dei vertici della narrativa di Stuparich,
un racconto lungo (o, se vogliamo, un romanzo
breve) datato luglio ’26 e subito
compreso nella silloge del ’29 patrocinata
da Montale. Come e più di sempre autobiografica,
la vicenda è ascrivibile
all’anno scolastico 1909-’10, in una classe
dello stesso Ginnasio superiore, a Trieste,
che Stuparich ha conosciuto da studente
e poi da docente. Gettato in un’unica
campata, Un anno di scuola si apre con
l’immagine di un sole settembrino che
annuncia il tempo del conflitto interiore
e del ripensamento, mentre si conclude
con i segni cabalistici di un temporale
estivo che prelude all’esame finale e
annuncia il pieno compimento di un
passaggio di fase. Dentro un microcosmo
in cui convivono italiani, slavi, greci,
ebrei, si intrecciano percorsi socialmente
dissimili per origini e destinazioni
ma paralleli nello svolgimento dinamico
del Bildungsroman, il romanzo
dell’apprendistato. In una classe di soli
maschi diciottenni, irrompe all’improvviso
Edda Marty, slava e austriaca d’origine,
bella e imprendibile alla stregua di
una silfide, quasi una Dafne dai capelli
biondocenere, polo di attrazione per la
comunità dei maschi e perciò detonatrice
di pulsioni adolescenti presto incontrollabili.
Di lei si innamorano Antero
(specchio ustorio di Stuparich ragazzo),
che è l’immagine del più aristocratico
riserbo e di una gelosa introversione,
Mitis (in lui si cela la figura dello scrittore
irredentista Ruggero Timeus), spiccio
e persino brutale nella sua impulsività,
infine Aldo (nella cui silhouette si nasconde
Alberto Spaini, primo traduttore
di Kafka in italiano), aspirante suicida
per amore di Edda. Identica la parabola
del loro infatuarsi di costei così come
il decorso del rispettivo disincanto,
laddove la ragazza emblematizza volta
a volta il sogno, l’altrove, la libertà o insomma
l’utopia scagliata oltre i vincoli
del mondo reale. Ognuno degli innamorati
porterà a vita il segno del suo necessario
fallimento così come Edda la nuova
e non meno dolorosa consapevolezza
di essere donna.
Dirà Stuparich a proposito del racconto
nel memoriale Trieste nei miei ricordi
(Garzanti 1948): «Certamente io rivivevo
un ricordo lontano, ma non era questo
che importava bensì la magìa per
cui quel ricordo, anzi l’incantesimo di
quel momento, mi apriva uno spiraglio
luminosissimo in un mondo fino allora
patito oscuramente, caoticamente dentro
di me. Di quel mondo io, di colpo, distinguevo
figure, atti e relazioni in una
luce tanto oggettiva da farmi spettatore
curioso e deliziato d’un dramma che
non era più mio». È ben percepibile in
Un anno di scuola (nel suo medesimo equilibrio,
scrive Sandrini, «tra la materia
autobiografica e la elaborazione poetica
») se non la diretta filiazione senz’altro
una comune atmosfera che rende familiari
le figure di Werther, di Törless,
di Tonio Kröger, di Hanno Buddenbrook,
prototipi e vittime sacrificali di
quella Finis Austriae che il racconto non
può dissimulare tanto che, traducendolo
nel ’77 in un film-tv, Franco Giraldi deciderà
di postdatare la vicenda all’anno
scolastico 1913-’14, nell’imminenza
dell’attentato a Sarajevo.
È un’atmosfera che Giani Stuparich ritroverà
nell’altro apice della sua narrativa,
L’isola (1942), un racconto dedicato alla
figura del padre e ai luoghi elettivi
dell’infanzia in Lussinpiccolo, una discesa
all’ade domestico dove pure è avvertibile
la lezione di un altro suo riferimento
capitale, Italo Svevo. (E va detto per inciso
che il villino di Scorcola, negli anni
bui del fascismo, fu un’oasi anche per
Umberto Saba, per Virgilio Giotti, per
Anita Pittoni e naturalmente, fra non pochi
altri, per l’amico-allievo Quarantotti
Gambini). Ma, paradosso ulteriore della
sua triestinità, a Giani Stuparich interessava
molto relativamente la psicoanalisi
e a Svevo egli guardava con la schietta
ammirazione che si deve a un grande artista
tout court. Ne parlava come di un conoscitore
della vita, un «sapiente» e, fatte
salve le ovvie proporzioni, lo stesso i
lettori di oggi potrebbero dire di lui.