I tempi sono quelli che sono:
come n egli anni Cinquanta
in gloria del mito della classe
operaia, l'ideologia è tornata a
imporre i suoi imperativi alla letteratura e a fomirle l'unico metro
di misura per determinarne la
qualità. Risultato? Che sia sufficiente dedicarsi alla propaganda
del gender fluid e piantarne la
bandiera in qualche mediocre romanzetto, a che le porte del successo si spalanchino come se
niente fosse. L'idea dell'autonomia dell'opera d'arte, la convinzione che quell'opera vivesse di
un'etica sua propria - che hanno
informato, se non dominato, il secolo scorso - hanno lasciato ilposto a una nuova mitologia
dell'impegno, all'altezza di questa nostra contemporaneità, che
pare avere come unico scopo
quello di apparire assolutamente moderna, magari in direzione
della polverizzazione del concetto d'identità. Eppure, proprio come la talpa marxiana della rivoluzione che scava in profondità,
i critici continuano a lavorare,
aspettando che le tenebre si dissolvano.
Un primo risultato arriva dal Belgio, ove insegna Luciano Curreri, il quale, insieme a Pierluigi Pelli ni, ha curato per Quodlibet il volume a molte voci La critica viva.
Lettura collettiva di una generazione 1920-1940 (pagine 358, euro 24,00), che ci restituisce, attraverso una serie di ritratti tra accademia e militanza, una mappatura di quanto è stato fatto da questi protagonisti della civiltà letterada italiana. Una miscellanea,
insomma, in cui, assumendo il
criterio cronologico della data di
nascita, si comincia con Cesare
Cases e si finisce con Romano Luperini. Ci sono - ne cito solo alcuni - Piero Camporesi, Cesare
Garboli, Cesare Segre, Luigi Baldacci, Pietro Citati, Lidia De Federicis, Edoardo Sanguineti, Vittorio Spinazzola, Alberto Asor
Rosa, Francesco Orlando, Pier
Vincenzo Mengaldo, Grazia
Cherchi, Claudio Magris, che
hanno animato il dibattito nazionale, non solo letterario ma, qualche volta, persino politico. Ci sono anche - tra gli altri - taluni
campioni di specialismo come
D'Arco Silvio Avalle, Mario Baratto, Luigi Blasucci, Ezio Raimondi, Lionello Sozzi, Maria Luisa
Doglio, Rosanna Bettarini e Paolo Valesio.
Lodevole iniziativa: se è vero che
il volume, oltre che un felicissimo modo di onorare una memoria storica sempre più fioca, ci affida i primi strumenti e le informazioni necessarie per procedere poi autonomamente. Il dato
confortante è anche un altro: che
il testimone continui a passare di
generazione in generazione. Ne è
prova il libro di Daniele Di Lorenzi, L'arma bianca della critica. Indagini. Affabulazioni (Fabrizio
Fabbri editore, pagine 128, euro
18,00), con prefazione di Renzo
Paris. Spiccano, in queste pagine, i ritratti di Penna, Pasolini, Testori, Elsa Morante. Ma colpisce
anche il saggio finale dedicato alle «simbologie archeologiche» in
Vaghe stelle dell'Orsa di Luchino
Visconti. Nella premessa intitolata Una chiave di lettura Di Lorenzi parla di «indagine interrogativa e perplessa», idea che ci
consente di capire perché la critica sia «arma bianca»: e cioè non
un mezzo «di offesa» che ha lo
scopo di «colpire» il «bersaglio»,
ma quello di «illuminarlo "dal di
dentro"», di modo che il critico
possa disporre, nel contempo,
d'«uno strumento (...) con cui
guardare il mondo e la propria
interiorità», magari nel segno di
quel Renato Serra cui è dedicato
un altro di questi saggi.
Concludo col recentissimo e notevole Compagni di via e altri
scritti di letteratura (InSchibboleth, pagine 174, euro 20,00) d'un
maestro operosissimo della nostra critica, Massimo Raffaeli.
Uno dei sentimenti che anima
queste pagine - proprio in opposizione alla vincente letteratura
commerciale, quella di genere,
progettata sulle domande del
mercato - s'alimenta di un risentimento etico e civile che non
vuole certo restaurare talune inclinazioni engagé ormai consegnate alla storia del costume letterario. Ce lo dimostrano gli autori chiamati all'appello, alcuni
lontanissimi da quelle sirene
ideologiche, ma tutti accomunati dentro un'idea di letteratura
che naturalmente si nutre del
pensiero critico e che della critica ha bisogno perché costitutiva degli stessi processi creativi. Non per niente l'altro sentimento importante è rappresentato da «una acuta
malinconia», provocata
dalla scomparsa «degli
scrittori-intellettuali».
Ecco allora, tra i molti,
Fenoglio, Bassani, Fortini, Sciascia («e il suo amico cattolico» Valerio Volpini), Pasolini (ma anche i
sodali di Officina Roversi e
Leonetti). Infine, lo scrittore
e poeta operaio Luigi Di Ruscio, che può addirittura contare su tre saggi. Ciò che da sempre ammiriamo di Raffaeli - nella perfetta ricostruzione d'un
quadro storico e culturale, nella
perizia filologica che da sempre
lo contraddistingono - è quella
capacità di accendere un lumino
funebre e sottrarre così una delle tante ombre alla notte della
Storia, foss'anche quella delle
magnifiche sorti e progressive.
Ho citato Volpini - che qualcuno
perfettamente definì come un
«testimone del tempo e povero
cristiano» -, ma si potrebbe ricordare anche il dimenticatissimo
Velso Mucci, tenuto invita postumamente solo grazie alla cura di
pochi amici che hanno lavorato
sulla sua opera, cui sono dedicate pagine intensissime, che ruotano attorno a quello straordinario zibaldone, un vero e proprio
«laboratorio critico», che è Mercato delle pulci. Sentite qua: «Spirito nativamente critico, Mucci sa
che ogni incontro equivale a un
banco di prova ovvero ad uno
specchio ustorio da cui dedurre
e valutare una immagine di sé o,
al contrario, rigettare quanto visi
manifesta incongruo e refrattario». E che dire di Renato S olmi,
figlio del più noto Sergio, del suo
Autobiografia documentaria.
Scritti 1950-2004, che raccoglie le
sue pagine disperse, «nella cui vicenda sono transitati i temi e i
massimi nomi del pensiero critico e della sinistra intellettuale»?
Per non citare Bianca Guidetti Serra, noto avvocato penalista, che sulla soglia dei novant'anni ci affidò una straordinaria autobiografia, Bianca la rossa.