Recensioni / Osservatorio critico della germanistica

Il titolo scelto da Camilla Miglio per questo suo volume è perfetto, riassume compiutamente la chiave interpretativa e la lettura dell’opera di Celan che qui vengono offerte. In musica, il ‘ricercare’ è una struttura compositiva che si tende tra ripresa e apertura, tra riproposizione contrappuntistica e variazione. Si tratta di una forma – ma con un linguaggio poststrutturalista dovremmo dire una ‘quasi-forma’ – aperta e mobile, che passa attraverso vuoti e lacune incolmabili, irriducibili, ma pienamente funzionali a restituire, all’altezza del linguaggio, una realtà che è in continuo divenire. E, infatti, questa forma mutevole caratterizza non solo i componimenti di Celan ma anche le sue parole, i suoi ‘verba’, le unità di base della sua lirica, fino a interessare sillabe, lettere e suoni, la dimensione fonetica (la ‘musica’) della poesia. Tuttavia, se questa struttura consente di decostruire il linguaggio e di ricomporlo a partire dalle sue componenti ultime, permette, allo stesso tempo, di decostruire anche la realtà – tutt’altro che solida, univoca, fattuale – e di metterne in luce la dimensione più riposta e originaria, quella della ‘materia’. Sono questi il presupposto e l’esito dello studio di Camilla Miglio: per Celan, non solo la realtà si compone e si ricompone in un incessante movimento e il linguaggio, di conseguenza, assume la forma di un inesausto ‘ricercare’, ma questa articolazione consente anche di risalire fino alle condizioni ultime dell’una (la materia) e dell’altro (la dimensione pre-verbale, fonetica, del linguaggio).
La prima parte (Intavolatura, strutture e categorie musicali dettano anche la scansione e l’impostazione del volume) raccoglie e mette sul tavolo temi e argomenti, i materiali della poesia di Celan. Tuttavia, non sono materiali che si possono semplicemente raccogliere e raccontare, ma sono il frutto di stratificazioni complesse, di «metamorfosi» (p. 82), nella storia così come in natura, il cui prodotto va sempre considerato come un esito momentaneo e relativo. E, allora, la rassegna dei materiali da un lato non può prescindere dalle relazioni che essi intrattengono tra di loro e, dall’altro lato, deve necessariamente mostrare l’instabilità di queste relazioni. Ogni evento (ogni ricordo, ogni oggetto, ogni situazione) si colloca in una rete di rimandi che riprendono e ripropongono, scandiscono contrappuntisticamente ma anche differiscono, imitano e alludono, guardano a ciò di cui dispongono e allo stesso tempo rimandano altrove. Il testo di Celan, pertanto, si configura come un «bacino di raccolta, ma anche alone o aura» che tiene assieme, in un equilibrio precario, «zone di accoglimento metaforico» (p. 124). Il testo di Celan, in altri termini, diventa il luogo di una continua «re-intavolatura» (p. 81) che, introiettando in sé cesure, interruzioni, vuoti, pause, rovesciamenti e inversioni, assume «ritmi» e «strutture apparentemente mute» (p. 111) che, in verità, sostengono la sua poesia e ne fanno «uno spazio abitabile» (p. 81), libero da qualunque presunta oggettività del linguaggio. È quanto Celan intende con il concetto di «Hof», sul quale l’autrice si sofferma con molta attenzione. «Bacino di raccolta», «spazio accogliente e in movimento» (p. 131), luogo luminoso dai confini sfumati, aperto e addirittura indefinito, ma condizione imprescindibile di ogni distinzione e, dunque, di ogni comunicazione e incontro.
La seconda parte del volume (Conglomerati cantabili) prende in analisi la natura storica della rete di relazioni che strutturano la lirica celaniana. Celan non astrae, non semplifica. La storia si costruisce per progressive stratificazioni, che rendono impossibile una sintesi. Celan è consapevole che anche la memoria attiva una serie di rinvii, potenzialmente illimitata, che sfocia inevitabilmente in contenuti eterogenei, «conglomerati» la cui eterogeneità, tuttavia, è garanzia di pluralismo, di polifonia. I ricchissimi riferimenti celaniani al vocabolario della geologia, ma anche della fisica e dell’astronomia, rendono quasi visibile, a livello linguistico, il comporsi di parole, sillabe, lettere, fonemi, un comporsi non lineare, dissonante, ma proprio per questo, come detto, non univoco né impositivo. La lirica di Celan tiene assieme «diversi piani e diverse dimensioni del discorso» (p. 224) rispettando l’eterogeneità, la porosità, la disomogeneità della realtà, della natura e della storia. Fa bene l’autrice a recuperare tra le letture celaniane i riferimenti all’atomismo di Democrito o alla fisica delle particelle, da Schrödinger a Heisenberg (pp. 239 ss.). Sedimentazioni, depositi, processi di «catalizzazione» (p. 206), «compressione e accelerazione» (p. 224): come la materia, anche il linguaggio attraversa continue trasformazioni. E proprio questo affondo nelle componenti e nel muoversi del linguaggio consente a Celan una «risemantizzazione» della lingua, nel senso di una riattivazione del ‘respiro’, del ritmo sincopato, disarmonico, atonale del linguaggio che esprime la vita.
I vuoti della materia devono diventare, e in Celan diventano, i vuoti del linguaggio, rendendo il linguaggio mobile, aperto, addirittura indeterminato, ma libero. La terza parte del libro di Camilla Miglio («Da capo». La grana della lingua) mostra tutte le implicazioni di questa concezione della realtà e del linguaggio sul piano della ridefinizione del soggetto e delle relazioni interpersonali. Le ricadute sono immediate: «La parola altrui, la materia altrui, nel soggetto che parla e ri-organizza discorsi, nella natura che aggrega e disaggrega microliti in estesi conglomerati, proprio nel suo non essere originaria, nel suo rifiutare l’arché è insieme comunitaria e anarchica» (p. 355). E ancora: «Tra la lingua e la natura c’è un tratto comune riconoscibile», ovvero «la materia non è mai originaria, né propria; essa ‘va errando ovunque, come la lingua’» (ibidem). Se il soggetto perde la sua presunta originaria identità con se stesso – «controsoggetto» (p. 343) rispetto a ogni tradizione cartesiana – la comunità ritrova il proprio significato in una naturalità inafferrabile ma libertaria, prima o al di là di sovrastrutture che riducono la società a meccanismo, fino alla violenza e allo sterminio. È tuttavia necessaria una critica «retardatio» (p. 349), un differimento che sospenda fenomenologicamente la pretesa immediatezza del linguaggio e del linguaggio poetico. La tradizione lirica europea offre alcune risorse che Celan riprende, rilancia e ri-traduce. Basta non ridurre il negativo, la differenza, quel «contro (gegen-)» costitutivo della poetica e del linguaggio di Celan («Gegenschrift, Gegenwort», tradotti dall’autrice come «contro-scritto e contra-detto», p. 338). Questo punto irriducibile a linguaggio costringe sempre a ricominciare ‘da capo’, ma consente anche di non fermarsi, di non cedere all’idea di un essere assoluto, di un ordine, di una sacralità che è solo costruzione.
Camilla Miglio dimostra tutto questo in modo analitico e rigoroso, e con un’ampiezza di riferimenti che non trascura né gli scritti teorici, né le stesure intermedie delle poesie di Celan, né tantomeno i richiami a eventi e autori che risuonano nella sua lirica. Se alcuni particolari interpretativi possono essere discussi (ad esempio, una sensibile valorizzazione della fenomenologia husserliana come sfondo filosofico della poetica di Celan), sono l’impianto metodologico, dettato dalla stessa struttura che esso porta alla luce, e l’interpretazione complessiva del linguaggio celaniano che rendono questo volume uno strumento di studio utilissimo, un esempio e un punto di riferimento per ogni lettore e studioso di Celan. Un esempio e un punto di riferimento: nel 2020, la pandemia non ha consentito di ricordare, sul piano degli incontri e dei convegni, i cent’anni dalla nascita e i cinquanta dalla morte di Celan, ma vogliamo sperare che il volume di Camilla Miglio riapra e rilanci la ricerca su un grande poeta, un grande classico della poesia europea, un autore da leggere e rileggere per comprendere le contraddizioni, le possibilità e i rischi del contemporaneo, dell’oggi, del nostro presente.