I giochi di parole, le situazioni surreali e l'umorismo
sono la sua cifra stilistica.
Fuori e dentro la narrazione. Il
filosofo non praticante e scrittore Alberto Ravasio, oggi, in
biblioteca Tiraboschi, alle 18,
incalzato da Giacomo Raccis,
parlerà de «La vita sessuale di
Guglielmo Sputacchiera»,
edito Quodlibet, tra i libri finalisti al Premio nazionale
narrativa Bergamo. Il protagonista della storia è un trentenne inetto sociale e sessuale,
con la cultura borghese, le origini proletarie e il futuro da
disabile economico, che un
giorno d'estate si sveglia
«transessualizzato»: Guglielmo Sputacchiera diventa donna, Carmela Pene.
L'analisi della vita sessuale è un pretesto per parlare
di altro: la verginità del protagonista come mancanza di
affermazione sociale ed economica, come incomunicabilità tra generazioni di padri e figli, o sbaglio?
«Sputacchiera non solo si
ritrova i seni, ma smarrisce il
suo kit da riproduzione, insomma gli organi genitali. La
metamorfosi è prima di tutto
metafora di una castrazione
socioeconomica. Sputacchiera diventa donna perché non
può diventare suo padre, il
maschione novecentesco.
Detto questo, il racconto è ambiguo, vuole essere frainteso,
è una foresta di simboli, o almeno un giardinetto».
Come nasce l'idea?
«Volevo scrivere un romanzo che si occupasse delle peculiarità della mia generazione e al tempo stesso tenesse
conto non dico di Boccaccio,
ma almeno di un Landolfi o di
un Busi. Poi parlare di singola
idea è fuorviante. La singola
idea può andare bene per un
tema di liceo o una campagna
elettorale, mentre per scrivere
un romanzo uno deve avere
circa dieci idee brillanti ogni
due parole».
C'è qualche riferimento
autobiografico?
«Se le dicessi di sì non mi
crederebbe e se le dicessi di
no non mi crederebbe comunque e allora le rispondo
che in generale scrivo sempre
la cosiddetta verità nient'altro
che la verità, ma ci metto intorno aggettivi depistanti, avverbi comici, gerundi carpiati,
tripli sensi».
Nel romanzo il protagonista vede la figura paterna come ingombrante. Mito di
Edipo?
«In Sputacchiera l'avversione verso il padre non è un fatto personale. Il padre qui va
inteso soprattutto al maiuscolo, lacaniano o freudiano. Nel
corso dei capitoli, il Padre è la
scuola dell'obbligo, i valori di
una volta, il senso comune,
qualunque verità dogmatizzata, dal divieto di sosta al paradiso. Quanto a me, con mio
padre non va nemmeno più
così male, nelle risse domestiche siamo passati dai bicchieri di vetro a quelli di plastica,
che sono meno fratturanti».
È più interessato a Freud o
a Marx?
«All'università leggevo di
più Freud perché era un ottimo pretesto culturale per parlare di cose sconce con le studentesse umanistiche, ma a
mio parere oggi si fa un uso
eccessivo di Freud e ci si dimentica un po' di Marx. 11 giovane occidentale va troppo
spesso dallo psicologo e non
abbastanza dal sindacalista.
Tende a risolvere i problemi di
nascosto e a pagamento senza
rendersi conto che fuori è pieno di coetanei riproletarizzati
come lui».
Sputacchiera rivendica la
sua sessualità e non capisce
come mai sia diventato donna. Viviamo in una società in
cui l'identità di genere è fluida tra genderfluid e non binario. Da cosa dipende?
«La fluidità di genere c'è
sempre stata, basta sfogliarsi
un mito greco a piacere, poi il
cristianesimo si è un po' messo in mezzo col presepe familiare uno e trino. Di sicuro negli ultimi anni i rapporti tra
uomo e donna sono cambiati.
C'è un avanzamento del femminile e un rinculamento in
tutti i sensi del maschile. La
donna è l'eroe del nostro tempo, mentre l'uomo ha cominciato tutte le guerre, ha portato le malattie, non ha fatto la
differenziata, ma vale per i settantenni e non per i trentenni,
che hanno ereditato solo debiti e imbarazzo».