Recensioni / #PremioBg23 – “La vita sessuale di Guglielmo Sputacchiera” di Alberto Ravasio

La vita sessuale di Guglielmo Sputacchiera (Quodlibet, 2022) è il brillante esordio letterario di Alberto Ravasio. Il protagonista che dà il nome al romanzo è un trentenne disilluso e rassegnato, istruito ma non ancora laureato, disoccupato e vergine incallito, confinato nella cameretta adolescenziale della casa dei genitori dove si limita a consumare ossessivamente video porno. La sua vita sembra procedere monotona e immodificabile fino a quando «un mattino d’agosto Guglielmo Sputacchiera si svegliò col muso sprofondato in un bel paio di seni: i suoi» (9). Guglielmo è diventato una donna, anzi «un donno»: Carmela Pene. Quella che viene definita come la transessualizazzione del protagonista dà inizio alla sua parabola di preoccupata ricerca del pene perduto. Nell’arco del romanzo, Sputacchiera si imbatte e cerca aiuto (invano) nella madre, nella dottoressa Casoncelli, nel “santone di famiglia” Beppe e nell’amico Guido Coprofago, evitando accuratamente il padre, al quale nasconde l’accaduto, mentre rievoca episodi dell’infanzia e dell’adolescenza che ne completano il quadro di inetto che subisce e assiste passivo allo «spettacolino obbligatorio della vita, in cui lui era, e sarebbe sempre stato, anonimo cespuglio scenografico» (13).
Dei modelli e dei riferimenti letterari e non solo si è già parlato molto: Ravasio cita esplicitamente Fellini e Fantozzi, la metamorfosi del protagonista è un rimando evidente a quella di Tiresia e Gregor Samsa, e kafkiana è anche la lettera al padre che chiude il romanzo (momento forse più riuscito dell’opera). Il nuovo «bel paio di seni» di Guglielmo Sputacchiera dell’incipit, inoltre, non può non ricordare, anche se con maggiore distanza, l’opera incompiuta di Pasolini, Petrolio, il cui protagonista Carlo subisce la stessa metamorfosi, introdotta nell’“Appunto 51” proprio con l’immagine per cui «Il petto di Carlo si appesantì». Di pasoliniano c’è poco altro, ed è di nuovo Ravasio a spiegarci come l’ambientazione della sua vicenda – il «paesello stercoso» a «metà tra città e periferia», collocabile nel lombardo-veneto ma di fatto immerso in un eterno presente, fuori dalla storia ed emblema di qualsiasi realtà provinciale italiana con la smania di urbanizzarsi – renda definitivamente impossibile il processo pasoliniano di “evangelizzazione atea” delle borgate. L’uso che Ravasio fa dei modelli è equilibrato e intelligente, dimostrando la cultura e la consapevolezza dell’autore che così scongiura lo «spurgo autobiografico in nome del menefreghismo letterario e della tradizione», senza mai sfociare nel citazionismo. Ravasio, infatti, sa distaccarsene in modo originale tramite l’uso sapiente di uno stile comico e ricercato. La lingua creata per il testo è iperbolica: l’originalità delle scelte lessicali e dei neologismi, l’abbondanza di metafore e l’accumulo non impediscono al ritmo di essere incalzante e anzi contribuiscono all’effetto comico e parodistico generale. La “transessualizzazione” stessa è un espediente comico controverso ma riuscito.
La realtà di Guglielmo Sputacchiera è polarizzata, quasi sempre dicotomica: c’è il successo o il fallimento, si è attivi o passivi, vincenti o vinti, colti o ignoranti, padri o figli, maschi o femmine. Gli unici momenti che sfuggono a questa schematicità sono la reazione della madre alla transessualizzazione di Guglielmo e il confronto con l’amico Guido Coprofago. La madre – «disoccupata volontaria», rassegnata al suo destino di infelicità, considerata pazza e che «da quando s’era sposata svolgeva due sole azioni che la distinguevano dal cadavere di sé stessa: trattenere il piscio dallo stimolo al bagno e prendere le dieci pillole giornaliere prescritte dal dottore della testa» (40) – reagisce con indifferenza (65: «Tra le reazioni possibili, oscillanti tra il suicidio e l’omicidio, Sputacchiera non aveva considerato l’apatia»). Troppo rassegnata e disillusa anch’essa per poter essere scalfita dalla vita che, come il figlio, ormai subisce. Guido Coprofago, invece, ignaro dell’identità di Carmela Pene, si lascia andare con lei ad un’inaspettata dichiarazione di stima nei confronti dell’amico, accuratamente e perennemente evitata davanti a quest’ultimo per paura di minare la monolitica virilità di entrambi:

Mi prenderai per finocchio, ma è la persona a cui voglio più bene, è il mio migliore amico. Se non fossi Coprofago, vorrei essere lui, Guglielmo Sputacchiera. Ha cultura da vendere, anche se nessuno gliela compra. Potrebbe fare qualunque cosa, ma purtroppo da qualche anno ha deciso che per lui è finita, finita ancor prima di iniziare (128).

Ma è proprio questa dichiarazione a scatenare, per la prima volta nel romanzo, commozione e sentimenti nel protagonista altrimenti apatico ed emotivamente inetto. Questa riluttanza nei confronti dell’emotività, così come tutta la ricerca del pene del protagonista, sono la narrativizzazione della crisi della mascolinità che Guglielmo (e la sua generazione) vive. Che sia una trovata letteraria controversa, come si accennava sopra, è evidente: l’uso di un linguaggio volutamente scorretto (transessualizazione, donno…) richiama una serie di questioni identitarie poco rappresentate o mal rappresentate in Italia, e non solo. Sarebbe quindi lecita la preoccupazione per cui il romanzo rischia di alimentare l’esistente crisi di rappresentanza e rappresentazione nell’editoria italiana. Se il pregio letterario dell’opera non basta a scagionarla da queste accuse plausibili, vi sono però l’assenza di pretese dell’autore di voler narrare e affrontare le questioni identitarie a cui si è accennato (e di soffermarsi invece solo sulla mascolinità nella sua definizione patriarcale e tradizionale) e l’uso consapevole di stereotipi di genere di cui il protagonista stesso sente il peso e che cerca a fatica di ribaltare, o quanto meno di non subire. Contestualizzato quindi lo stile comico, isolati i temi che l’autore si propone di affrontare, riconosciuti i modelli letterari e gli archetipi riadattati, e corredato il libro di un trigger warning che tuteli persone non-cis sulle quali il contenuto potrebbe avere ripercussioni emotive problematiche (come forse sarebbe successo in altri paesi qualora avesse ottenuto di essere pubblicato nonostante la natura controversa), anche questo romanzo può sollevare questioni e dibattiti interessanti proprio di carattere identitario.
Senza mai sfociare in vera e propria denuncia, Ravasio decostruisce la mascolinità passando proprio attraverso la rigidità del binarismo. Le categorie del genere, nel testo, sono due, stereotipicamente connotate e biologicamente determinate: il pene per «il maschio […] è l’ago vibrante della sua bussola vitale» (10); la vulva è, rifacendosi a teorie di ispirazione freudiana contestate dal postrutturalismo femminista, «assenza onnipresente, il buco convesso che riempie gli spazi vuoti» (11). Guglielmo è quindi privato (“castrato”) di quello che è definito il suo “portasfortuna”, nonostante la dichiarata vitalità di cui è emblema. La “femminilità”, d’altra parte, è castrante: è assenza, ma che inghiotte. Nonostante l’uso consapevole di stereotipi di genere, la “fine del maschio” di rosiniana memoria non è mai imputata alle mire espansionistiche femminili (Hannah Rosin nel 2012 annunciò la fine del patriarcato con la vittoria e il sorpasso delle donne nella centenaria guerra fra i sessi). L’origine e la problematizzazione della crisi sono piuttosto da rintracciarsi nel tema cardine del romanzo: il conflitto generazionale. Sputacchiera, infatti, riconosce che proprio dal padre ha imparato che «uomo non si nasce né si diventa, ma uomo si recita, giorno dopo giorno, rinunciando all’emotività, al paradosso, alle sfaccettature, ai chiaroscuri […]» (157), invocando involontariamente il concetto butleriano di performatività che supera il motto/manifesto di Simone de Beauvoir «on ne nait pas femme: on le devient», il cui riferimento è invece più esplicito.

[…] la generazione di Sputacchiera non solo era perduta, ma è una generazione perduta in partenza, sin dall’utero […] la sola cosa che non fosse in crisi è la crisi stessa (27).

Una crisi nata dal paragone impossibile con la generazione dei padri, che ha cresciuto i figli convincendoli di poter avere tutto ma senza lasciare loro niente. La frustrazione di non potersi affermare socialmente ed economicamente come i padri, e il mancato riconoscimento di un tipo di affermazione alternativa per i figli, rendono vano ogni sforzo di emancipazione culturale e morale, relegando Guglielmo Sputacchiera a una situazione di stallo e autocommiserazione da cui non ci si può salvare: «o muori di fame e di sogni o mangi abbastanza a lungo, nel piatto in cui sputi, da diventare tuo padre» (123). L’essere non «un’eccezione, ma la regola, non un vincitore ma un vinto» di Sputacchiera «radicalizza l’invettiva politica», secondo le intenzioni dell’autore stesso, il quale flaubertianamente afferma che Sputacchiera c’est moiperché lo sono tutti i trentenni. La soluzione del protagonista è la fuga, nel finale sorprendente del romanzo che vale la pena non anticipare qui. L’amico Guido, invece, per Guglielmo riconosce nella scrittura l’unico mezzo possibile di affermazione e riscatto, lo stesso strumento che Ravasio rivendica per se stesso e che lo differenzia dalla passività del protagonista di questa «autobiografia generazionale non autorizzata». È evidente infatti che Ravasio, citando Guido che parla di Guglielmo, abbia «l’istinto della parola», che sappia scrivere «di quel che conosce, del paese, della religione, della famiglia, dei parenti deficienti, dell’istruzione fallimentare, della disoccupazione, dell’isolamento informatico, dell’amore impotente» e che il suo punto di vista è «assolutamente originale» (128-129).

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