"Maestro d'un maestro, / Jacopo da Lentini, / cosa
ciavrà 'n canestro / sto Franco Scataglini?". Nel
suo dialetto "agontano", quell'anconitano che di fatto nasce alla poesia solo con lui, nel 1973, con E per un frutto
piace tutto un orto, "nuova lingua poetica" creata non come "idioletto", bensì come mai prima pensato "idialetto"
(Canettieri), e il cui lessico è fatto di "varianti, più corpose o invece più aggraziate, dell'italiano stesso (Mengaldo), Franco Scataglini, oggi celebre per la mirica versione
"idialettale" del Roman de la Rose (La rosa, Einaudi 1992,
con Prefazione di Cesare Segre), traduce-(ri)scrive ai livelli più alti della lirica novecentesca una metafisica d'amore
e di morte, di solitudine e di creaturalirà, che irrompe nel
quotidiano "puntando all'alto con i strumenti del basso" (Brevini). La sua latitudine oscilla, secondo una bella
formula di Monica Longobardi (II giardino e la rosa, Mimesis, 2018), "tra provincia e Provenza".
"La volontà di scrivere come poeta romanzo" è affine a
quella dei Cantos di Ezra Pound, e soprattutto del suo The
Spirit of Romance, uscito nel 1910 e letto da Scataglini fra i cinquanta e i sessanta insieme ai Poeti del Duecento di Contini, come fa notare finemente Canettieri: dialetto e lingua delle origini romanze si integrano
così "in un insieme cognitivamente organico": accanto
alle poesie casarsesi di Pasolini, "spingendo questo anconetano di periferia, che da bambino aveva ascoltato
anche le cadenze milanesi e tutto un coro plurilingue
di soldati e ufficiali invasori, a una riflessione più profonda sul `parlar materno' e sulla sua corposità vocale,
sulla sua aura densa di risonanze ancestrali e di umili
storie, che si poneva in armonico contrappunto con la
lirica colta, acquisita ma ormai definitivamente altra".
I versi di Scataglini sono semplici e radunati, cantabili ma spalancati sull'abisso. Prosciugati, essenziali, come gli haiku giapponesi che furono cari a Ungaretti.
Si nutrono, nota l'editore, dei "primitivi: dei pre-dantisti e del Dante plurilingue", con "un intrigante gioco
di falsificazione che comporta la piena identificazione
del secondo autore nel primo": sintomaticamente Giacomo da Lentini (settenario), rima con Franco Scataglini, che però "ha bisogno di una zeppa riduttiva ('sto)
per giungere a misura: La prima raccolta, "lontana da
qualsiasi stilnovismo, appartiene anima e corpo alla linea siculo-toscana provenzaleggiante (...), con le sue
pulsioni sensoriali di memoria aniaddiana" (Canettieri), è scandita in quartine di settenari, la struttura amata da Metastasio: ma come Mengaldo stesso sottolinea
nella Prefazione, questa scelta metrica, appoggiata al
"messaggio drammatico" che spesso cova sullo sfondo,
avvia la tecnica del contrasto o per così dire dell'ossimoro strutturale.
La musicalità di queste quartine, la leggerezza metrica che sembra seminare e far sbocciare di colpo la
sentenza conclusiva, affratellano Scaraglini a Caproni, alle sue litanie sigillate da un pensoso fulmine in clausola.
Mengaldo, aprendo il "Meridiano" dell'Opera in versi caproniana curata nel 1998 da Luca Zuliani, richiamava la
definizione di Agamben di un Caproni "poeta a-prosodico", e descriveva un "uso di versi brevi e medi che si rotolano in cascate di rime, ma compromessi dalla trasversalità
compulsiva delle mille inarcature".
A me sembra anche che l'"Annina, bianca e nera" che
"bastava a far primavera", l'Annina del Seme del piangere, per la quale Caproni voleva "rime chiare, / usuali: in
are. / Rime magari vietate, / ma aperte: ventilate. / Rime coi suoni fini / (di mare) dei suoi orecchini", abbia
la stessa consistenza fantasmatica di sapore trobadorico,
lentiniano, stilnovistico, della Rosa/Rosellina, settimi che
Scataglini canta in rarissimi versi italiani per la prima volta portati alla luce da Paolo Canettieri in quest'edizione
mirabile per cura filologica ed esegetica: "Oh il bel nome 'Rosellinai!' / 'Ros' - che vuoi dire brina / sulla rosa:
la roselbrina: / mio bene, il tuo nome stesso / e un canto
/ Franco" (Natale 1993). E ancora, il 22 marzo 1991, richiamando il Nome della Rosa, della "sua Rosa", e insieme facendo cenno al Roman de la Rose appena tradotto
in "agonrano" (sarebbe stato pubblicato pochi mesi più
tardi, nel 1992 nella "bianca" Einaudi con prefazione di
Cesare Segre), ecco un distico funambolico che più caproniano non potrebbe immaginarsi: "Memori de 'La
Rosa' / vanno le rose a Rosa". Mi domando poi se sia una
sorta di "capronismo trascendentale" che dettò So' rimaso la spina, poesia eponima della collezione del 1977, con prefazione di Carlo Betocchi, il quale di Caproni fu amico: "Est'amore m'ha colo / conte 'na nsugelina. / Spolpato sopra e soro / so' rinvaso la spina': Sicuramente Monica
Longobardi ha trovato con acume l'origine dell'immagine nella "ponha d'anors quem nostra / la carn" di Jaufré
Rudel ("trafittura d'amore che mi consuma / la carne",
con il primo enjambement delle letterature romanze) e
nella "dolors que ab joi sana" dello stesso trovatore, "que
plus es ponhens qu'espina". Il dolore che cuoce il "poetapesce preso all'alno" è gioia che sana: e nella dichiarazione (Questionario per i poeti in dialetto, 1988) "Amo Rudel
come se fosse qui" il gioco fra "ramo" e il verbo "amare"
recupera un antichissimo equivoco lirico.
Però So' rimata la spina rispecchia anche il finale di El
senso del mio testo, la poesia che chiude la raccolta precedente, E per un frutto piace tutto un orto: "L'assenza de
quel gesto / da sempre me tortura. / El senso de 'I mio testo / è 'na cancelatura". E nella rete intermmoriale del lettore questi versi fanno echeggiare insieme altresì il Dante
di Paradiso XVIII 130, "Ma tu che sol per cancellare scrivi" (con altro senso, ma così misteriosamente vicino alla
mistica di Mister Eckhart!) e il Caproni postumo di Res
amissa (quel Caproni che, tanto vicino a Betocchi, probabilmente lesse le poesie di Scataglini - e allora per la
figura rudelliana della spina si dovrebbe parlare di "scataglinismo trascendentale"): "Generalizzando. / Tutti riceviamo un dono. / Poi, non ricordiamo più / né da chi né
che sia. / Soltanto, ne conserviamo / - pungente e senza
condono - / la spina della nostalgia".
Dieci anni prima di Rosellina/Roselbrina (22 settembre
1983), come sempre con dedica in corsivo "A Rosellina /
Franco", nasceva un'altra splendida dichiarazione d'amore, che è anche (per usare una formula geniale di Zanzotto) la più forte "notificazione di presenza" in Ancona, dove vibra l'eco memoriale di fantasmi dialettali: "Ho visto
in fondo al mio cuore / che io, Franco Scataglini, non ho
/ paura di morire / perché io so che giorno per giorno /
impallidisce dentro di me / un pigmento della mia vita
e si colora / un pigmento della mia morte: ma il mio
amore è il coniglio trepido, / il mio amore per te, / la piccola creatura di pelliccia / che vuol essere sempre".
Memoria dialettale, appunto. Nel Taccuino inglese
che Canettieri ha estratto, inedito, dall'archivio privato
dell'autore messo a sua disposizione da Rosellina Massi,
l'"io" già "si nomina per non morire': o, secondo una magnifica formula di Roland Barthes, car il faut bien dur bien plus que. sa voix: "quassù a Pietralacroce / Scataglini che scrive, / per non muri, la voce / soltanto sopravive". E l'eccellente glossario approntato da Canettieri con
maestria di filologo romanzo aiuta la memoria sonora a
far saltare fuori dalla sua tana scavata nelle zolle del dialetto quel "coniglio trepido", tenero animalino-fantasma
del microbestiario d'amore di Scataglini. In El Sol ("forse
l'opera più importante e trascurata di Scataglini", secondo
Canettieri) ecco un timido coniglietto-scataglinetto far
capolino nell'orizzonte nostalgico di unarcadia contadina che costituisce lo sfondo della sua metafisica tracimante nel quotidiano con le continue inarcature/spezzature
degli enjambements: "Era a carburo / le luci de le stalle. /
Guardavo, cun il letto / col capo 'nera le spalle, / el culmine
perfetto del visibile. Un uscio / svelava un rosso arcoro
/ de rola acesa. Un fruscio / de vaste foie d'oro rempiva
el scuro, ed era / ogni voce un distante / richiamo de chimera / perso in mezo a le piante".
Come già fece per Caproni e perla sua "disappropriata
maniera" in Res amissa, Giorgio Agamben, nella densissima pagina di Avvertenza alla recente edizione di Tutte le poesie nella collana bilingue "Ardilut" (pp. CVI-974,
€ 36, Quodlibet, Macerata 2022) coglie il cuore della poetica di Scataglini "nel bilico sottile e illocalizzabile che divide il dialetto anconetano dall'italiano': e
che conferma l'essenziale bilinguismo della poesia italiana": "Non esiste una lingua: esiste soltanto un campo di ardue tensioni fra una realtà sorgiva e in perenne
movimento (che Dante chiamava volgare) e anagrammatica che cerca invano di contenerla e fissarla': Canettieri ricorda coree Francesco Scarabicchi riconoscesse
nel "dialeto" del suo amico Scataglini, uscito "da l'infanzia", una lingua "cinguettata dai morti sul colonibaio di cimitero" che è anche l"'inconscia definizione
di sé e del proprio stato". "La lingua dei poeti è sempre
una lingua morta", annunciava Giovanni Pascoli nei
Pensieri scolastici, aggiungendo subito: "curioso a dirsi:
lingua morta che si usa a dar maggior vita al pensiero".
Giorgio Agamben, ancora una volta, riportando alla luce queste radicali dichiarazioni di poetica, riconosce come si raggiunga qui "l'esperienza dello stesso avvento originario della parola. (...). Il pensiero vive della
morte delle parole. Pensare, poetare significherebbero,
in questa prospettiva, far esperienza della morte della parola, proferire (e resuscitare) le morte parole". Per
questo gli opera omnia del poeta Scataglini sono accolti nella collana "Ardilut", diretta da Agamben, che ha
già accostato il Pasolini di I Turcs tal Friul a In nessuna
lingua In nessun luogo, le poesie dialettali di Zanzotto. Il dialetto è il logos erchómenos, la lingua "veniente
di là dove non è scrittura (...) né grammatica: luogo,
allora, di un logos che resta per sempre erchómenos:
che mai si raggela in un taglio di evento, che rimane
quasi 'infante' pur nel suo dirsi". Di questo logos-infans,
continua Zanzotto, noi non conosciamo la scaturigine: "non sappiamo di dove la lingua venga, nel momento
in cui viene, monta come un latte': Genssunluogo o si chiama quel non-luogo, quella non-grammatica, "neovolgare eterno (...) insieme nuovo e antichissimo" (Agamben).
Questo sopravvenire dalle origini del "dialeto" è la voce di Giacomo da Lentini, di Jacopone da Todi, di Jaufré
Rudel che rivivono e si cancellano in quella di Scataglini.
"Per me vita e scritura / ène compagni, el sai, / tuta scancelatura / dopo dulor de sbai. Se cerca 'n sono lindo /
dreni de sé e se trova / el biatolà d'un dindo / spèrsose
'nte la prova": Così, in Vita e natura, in So' rimaso la spina
(1977). II bestiario neotrobadorico di Scataglini è il trepido "cunilletto", è quel tacchinello che si perde nella pioggia lanciando il suo lamento come la gallina leopardiana
che "ripete il suo verso" dopo la tempesta, e come la tenera
pollastra-moglie di Umberto Saba, la cui voce ha "la soave e triste / musica dei pollai"; è la popolazione innumerevole dei volatili trobadorici che frullano in questi versi,
spesso ingabbiati in un quasi-haiku: "Piantine de verde /
tra i fili de ferro, / un volo se perde / de dietro lo sterro".
Se per Wallace Stevens la poesia è un fagiano che fulmineo scompare nel bosco ("Poetry is a pheasant disappearing in the brush"), il "logos che resta sempre erchómenos", "sempre veniente" di Scataglini batte le ali
in questo metafisico, trobadorico "volo che se perde / de
dietro lo sterro".