Recensioni / Trauma e agency nell’arte – Intervista a Daniele Giglioli

Daniele Giglioli nasce a Roma nel 1968. Insegna Letterature Comparate all’Università di Trento. Collabora con il Corriere della Sera e con la Neue Zürcher Zeitung. La sua pubblicazione più recente – oltre all’“eco” Fiction per Treccani Libri, a numerosi contributi editoriali (la prefazione a Contro l’interpretazione di Susan Sontag o al J’accuse di Émile Zola, per esempio) e scientifici – è la riedizione nel 2021 di Senza trauma. Scrittura dell’estremo e narrativa del nuovo millennio per Quodlibet. Il saggio, uscito nel 2011 e secondo titolo di una “quadrilogia” critica (come dirà durante questa intervista), cerca di definire la scrittura dell’estremo nella narrativa del nuovo millennio. Il presupposto di questa scrittura (che non è né la lingua né lo stile, ma «il risultato di una presa di posizione, il luogo – scrive Roland Barthes – di un “impegno” e di una “libertà”») è l’assenza di un trauma, che spinge gli autori a crearne di immaginari, attivando un meccanismo di rimozione formale delle complessità del contemporaneo. In quest’intervista, Giglioli ripercorre parte della sua opera critica per parlare di agency, agentività, e del ruolo dell’arte e della letteratura nella società.

Demetrio Marra: Buongiorno professore, la ringrazio di aver accettato l’intervista.

Daniele Giglioli: Grazie a lei. Anzi, diamoci del tu, è più semplice.

DM: D’accordo. Vorrei partire dalla tua “poetica critica”, attraverso Senza trauma. Scrittura dell’estremo e narrativa del nuovo millennio, uscito per Quodlibet nel 2011 [ristampato da Quodlibet con una nuova postilla nel 2021, ndr], poi Critica della vittima. Un esperimento con l’etica, per Nottetempo nel 2014 e infine Stato di minorità, per Laterza nel 2015.

DG: Io aggiungerei quell’altro, All’ordine del giorno è il terrore. I cattivi pensieri della democrazia [Bompiani, 2007 – ristampato da Il Saggiatore nel 2018, ndr]. È un po’ una quadrilogia, per così dire.

DM: Okay. Questi libri condividono una poetica.

DG: Un obiettivo comune.

DM: Quale?

DG: Torniamo alla metà degli anni Duemila, quando c’era la cosiddetta “guerra al terrore”. Mi sono reso conto che esistevano una serie di dispositivi discorsivi, affettivi, a volte anche pratici, materiali, istituzionali che tendevano a produrre una situazione di inibizione dell’agency, cioè della possibilità di agire, della possibilità di sentirsi agenti, responsabili della propria vita, del proprio rapporto con la società. E allora, senza sapere ancora con certezza in che direzione mi stavo muovendo, ho cominciato con il libro sul terrorismo, poi con quello sul trauma, ho continuato con quello sulla vittima e poi in Stato di minorità ho riassunto un po’ tutto.

DM: Io ho voluto intervistarti perché, secondo me, nella scrittura e nell’arte contemporanea – dopo quelle che in Senza trauma tu chiami scritture dell’estremo (l’autofiction e la letteratura di genere) – mi sembra che l’attenzione verso l’agentività sia aumentata. Prima si è cercato dove risieda l’agency nell’altro, fuori dal monopolio umano: sia l’ultima esposizione della Triennale, Unknown Unknows, sia l’ultima Biennale di Venezia, The Milk of Dreams, pensano al postumano in questi termini. Poi, grazie forse a questa estensione, grazie alla ricerca anche artistica sulla coscienza dei materiali, sulla coscienza degli animali, è venuto naturale tornare alla nostra stessa capacità di agire, no?

DG: Spiegati, fammi qualche esempio.

DM: Tu parli di scrittura dell’estremo come una scrittura che, constatata (consapevolmente o meno) l’assenza di traumi nel contemporaneo, traumi collettivi nel contemporaneo occidentalizzato, ne crea di immaginari. Da un lato il vittimismo (nell’autofiction), dall’altro il complottismo (nei generi), sono risposte a questi “traumi immaginari”, dove la capacità di intervento dell’individuo è nulla. E, nonostante tu sostenga di non stare dando giudizi di valore, men che meno etici, si vede che cerchi qualcos’altro. Io credo che ci sia dell’altro, per esempio la letteratura working class. O l’arte che affronta la crisi climatica. Quando si hanno di fronte degli oggetti così grandi, come il lavoro – quindi il sistema – o il clima, iperoggetti [dalla definizione di Timothy Morton, ndr], è normale presupporre da parte dell’individuo uno stato di minorità. La crisi climatica è inaffrontabile, il capitalismo è inaffrontabile, la violenza quotidiana dei sistemi è inaffrontabile, e pure recentemente c’è chi sta provando a fare degli esperimenti finzionali che li affrontino. Sto facendo un discorso generico, me ne rendo conto.

DG: Hai messo a fuoco molto bene questo momento di passaggio tra il primo decennio e il secondo nel nuovo secolo. Ho però la sensazione che tutte queste buone intenzioni siano ancora insufficienti. Primo: sono tutte fondate sul dover essere. Cioè non su un essere, su qualcosa che c’è, che si constata ed eventualmente si prova a modificare. Secondo: qual è il soggetto che dovrebbe attuarle? Terzo: in che rapporto si pongono con l’universo non solo economico del lavoro? Il grande motore che ha mosso tutto il pensiero dell’Ottocento e del Novecento è stato il lavoro. Per la prima volta, nella storia umana, lavoro è stato potere. Questa cosa è stata scientemente smontata tanto nel campo del lavoro quotidiano, di tutti noi, quanto sul piano della produzione artistica, nel senso che la maggior parte, almeno di ciò che io vedo, sono buoni propositi o letteratura di denuncia. Nei più bravi, nei più lucidi – Walter Siti, Emmanuel Carrère, per esempio – c’è invece quasi una sorta di teorizzazione della necessità del declino dell’essere umano. Tutti dicono che bisognerebbe fare “qualcosa”. Ma non si può fare niente se la “cosa” ti è stata requisita. Ecco perché che faccio fatica a vedere, alla stessa stregua, nuove forme nell’arte e nuove forme di organizzazione politica. D’altra parte, è per questo che ti ponevo il tema del lavoro. Per l’essere umano, la “cosa” non è un dato che ti sta lì di fronte, è qualcosa che ti sei costruito o ti devi costruire.

DM: Ottimo [ride].

DG: Dal 2008, dalla crisi dei mutui, anche ai più tonti (e lasciando da parte i finti tonti) è stato chiaro che il modello neoliberista fa acqua da tutte le parti, ma nessuno ha potuto interpretare in senso progressivo, come si sarebbe detto una volta, questa crisi. È finito il sogno farlocco di un mondo dove tutti circolano, commerciano, assaggiano ogni genere di cucina e si vogliono tanto bene a parte qualche delinquente irrecuperabile. Gli imperi si sono richiusi su sé stessi, il che è un controsenso perché l’impero ha per sua logica l’espansione, come spiegava già Pericle in Tucidide, ed ecco, more geometrico, la guerra. Quello che mi fa specie è che i più lucidi nel rendersi conto di quanto utopico, se non francamente ipocrita, fosse il racconto della globalizzazione, siano stati i regimi autoritari. Non che tra noi non ci siano intelligenze e immaginazioni capaci di fare belle analisi e belle opere: ma non vanno mai, proprio perché sono belle teste, nella direzione dell’agency, piuttosto della sua negazione. Prendi tre tra i migliori scrittori della mia generazione: Giorgio Vasta, Giorgio Falco e il compianto Vitaliano Trevisan. Sono i cantori della disperazione. Che io stimo per questo. Perché non dicono: ho la soluzione in tasca, ecco la strada per una nuova estetica dell’esistenza. E tuttavia la loro disperazione mi sembra più tragicamente corroborante, e paradossalmente allegra, del brodino caldo di tanti altri e altre. Se la “cosa” attorno a cui si aggirano consumati dal fuoco è una mancanza, ciò testimonia che quella cosa è una necessità e bisogna andare a riprendersela.

DM: Questa costatazione viene spesso, però, da persone con una sofferenza psicologica.

DG: Come sai meglio di me, Mark Fisher ha scritto molto su questo in Realismo capitalista e altrove. Alla fine non ha retto e si è ucciso. Prima c’è stata la desocializzazione, l’individualizzazione del disagio affettivo e mentale. Se non ce la fai sei tu che sei sbagliato, fatti curare o prendi la pillolina. A ciò si è risposto collettivamente trasformando ogni cosa in un trauma, che è lo spettro, il calco negativo dell’agency: una potenza oscura e indicibile, non la gelida ma anche ormai trasparente atmosfera dei rapporti sociali capitalistici, mi ha fatto del male. Di qui la tendenza collettiva a trasformare ogni cosa in trauma. Tutti fermi, tutti a casa, tutti zitti, tutti a dire la stessa cosa. La verità è che noi trattiamo come traumi quelli che dovremmo trattare come nemici. Avrai sicuramente meno anni di me.

DM: Ne ho 27.

DG: Con una piccola disattenzione una ventina di anni fa o giù di lì, avrei potuto essere tuo padre. Qual è lo spettro che ti si para davanti tutti i giorni? La precarietà, che ha degli effetti psicologici devastanti, tanto che se non la rimuovi quotidianamente rischi di soccombere. Ma la precarietà non è un trauma. È un nemico. Quando è uscito Senza trauma, molte persone giovani mi hanno detto: d’accordo, però ce li abbiamo anche noi i nostri traumi, pensa al dramma della precarietà. Certo. Ma è in termini di inimicizia verso chi te la commina che va affrontata, non di trauma calato da chissà che nube. La cura non sta nei ricaptatori della serotonina ma nel conflitto, nel riconoscersi per necessità e anche per desiderio, che non è un mero sfizio, esseri conflittuali. “Quegli altri”, non a caso, lo sanno benissimo. Rimanere mutilati della dimensione del conflitto significa…

DM: …significa perdere la capacità di agire e di conseguenza non credere nell’agency.

DG: Il principale conflitto, oltretutto, è, come sempre è stato, nella produzione e non nella presunta ridistribuzione della ricchezza, di ogni genere di ricchezza. Se ne vuoi una riprova, sforzati di restringere lo sguardo all’ambito della produzione culturale. Difficilissimo permettersi delle vere sperimentazioni out of the box. Il 99% delle mostre, dei concerti, degli spettacoli, delle performance, dei libri, io non ho neanche voglia di fruirli, perché so già quello che troverò. Finti traumi come feticcio, come surrogato che sta al posto della messa in scena di una situazione drammatica vera.

DM: Faccio una battuta, ma la mia generazione è la generazione che va in terapia. E in terapia è sostenuta la maggiore importanza della prassi sulla teoria, dell’azione sul pensiero, soprattutto in luogo di patologie ansiose, di fobie, eccetera. Proprio questo nuovo rapporto con sé stessi in qualche modo ci rispinge al di fuori. Impariamo a processare il nuovo, che è un nuovo catastrofico e instabile. Sono però pienamente convinto della possibilità di incidere. Ti ho chiesto l’intervista proprio per la tua lucidità interpretativa sui discorsi vittimari – letterari, artistici, politici –, però è una lucidità che potrebbe annientare. Invece c’è bisogno di trovare una strada.

DG: È possibile. All’immobilità perenne nemmeno io ci credo. Ciò che ho cercato di fare, proprio per questo, è rimuovere ceppi, impedimenti, rappresentazioni paralizzanti: in altre parole, critica.

DM: Non credi che il romanzo, anzi: la narrazione in senso lato possa in qualche modo far fare “esperienza”, seppur immaginaria, al lettore? Che possa servire – sto ovviamente, a questo punto, parlando di tutta l’arte, della sua forma, dei suoi modi e dei suoi contenuti –, essere “utile” a questa decostruzione? Alla fine fare esperienza è il contrario della rimozione.

DG: Sì e no. Io credo che una cosa che ci è venuta meno con il crollo della tradizione dialettica è la categoria della mediazione. La scrittura e l’arte non intervengono direttamente sulla realtà. Non hanno un’utilità garantita a priori, a monte. È alla foce che si decide la partita, è il lettore che può giudicare “utile”, per sé, per gli altri, un’opera d’arte. Sta a lui decidere cosa farne.

DM: Diceva Carmelo Bene che l’arte è inutile e sta in questo la sua sopravvivenza.

DG: Personalmente non credo molto nella letteratura impegnata. So però che dopo aver letto Alla ricerca del tempo perduto di Proust o Il castello di Kafka, mi chiedo: se siamo capaci di creare questi splendori, perché dobbiamo vivere una vita così asfittica, spaventata, miserabile?

DM: Forse ci vogliono testi sperimentali, che mettano in crisi diversamente quella categoria di mediazione che dici, non che la neghino. Sto cercando di far quadrare il conto dell’intervista, spero di spiegarmi. Quest’anno è uscito un romanzo particolare: Insorgiamo. Diario collettivo di una lotta operaia (e non solo) , del Collettivo di fabbrica GKN.

DG: Per Alegre, sì.

DM: È davvero una scrittura potente, nonostante sia un resoconto tutto sommato non troppo editato della lotta che gli operai e le operaie della GKN hanno portato avanti. Pubblicano i post Facebook e Instagram, i comunicati stampa, i verbali delle assemblee. Di fatto, è anche un esperimento di scrittura collettiva. Assomiglia quasi, esagero, all’epica greca, tramandata oralmente e poi fissata. Qui c’è un’oralità momentaneamente fissata per obiettivi comunicativi, di lotta sindacale, e poi ulteriormente messa in forma di romanzo. Qui il ripensamento della categoria di mediazione tra libro e realtà è l’azione collettiva, il discorso intersezionale eccetera. Se tornassimo a scrivere collettivamente, o almeno se tornassimo ad avere delle narrazioni collettive che poi si trasformano in letteratura, forse tornerebbe a esistere una agentività del testo. Non so se mi spiego.

DG: Sì, però devi tenere conto di quattro secoli di moderno, di pensiero individualista. Devi tenere conto della nostra attuale antropologia. Non dico che non sia possibile, anzi spero di sì, purché si abbia la consapevolezza della difficoltà della sfida. Se vuoi pensare a una mitopoiesi collettiva contemporanea, devi sapere contro quale Moby Dick ti vai a scontrare. Sono sicuro che ne vale la pena. Garanzia dell’esito però non c’è, come per tutte le cose che hanno valore a questo mondo.