Nel continuo percorso di rivoluzione e cambiamento stilistico intrapreso da Miles Davis, il
doppio album Bitches
Brew costituisce senzaltro una delle tappe più
significative e rilevanti.
Registrato a New York
nell'agosto del 1969
(non a caso a un solo giorno dalla conclusione di un altro evento epocale per la musica
del Novecento, il festival di Woodstock) ancora oggi Bitches Brew è considerato uno spartiacque, non
soltanto per la produzione discografica del trombettista, ma più in
generale per la parabola della musica afroamericana nel suo insieme.
Non sorprende quindi il fatto che
un lavoro discografico così importante sia oggetto di una bibliografia molto ampia (ricordiamo almeno Miles Davis, il Quintetto
Perduto e altre rivoluzioni di Bob
Gluck, cfr. «L'Indice», 2021, n.
3)). Tuttavia, questo saggio degli
studiosi italiani Enrico Merlin e
Veniero Rizzardi costituisce senza
dubbio l'analisi più esaustiva e minuziosa mai
pubblicata su Bitches
Brew, e più in generale
sulla musica del cosiddetto "periodo elettrico"
di Miles Davis. Gli autori hanno infatti il merito di inserire Bitches
Brew in un discorso più
ampio: nella prima parte del volume vengono
presi in considerazione i precedenti lavori discografici del trombettista. Dagli ultimi
lavori incisi insieme al suo cosiddetto "Second Quintet" (con Herbie Hancock, Wayne Shorter, Ron
Carter e Tony Williams), in cui le
forme improvvisative si allargavano e complicavano pur rimanendo
in un contesto acustico, si arriva in
breve all'impiego di nuove sonorità. In primis il piano elettrico Fender Rhodes (affidato prima a Hancock, e in seguito a Joe Zawinul e
Chick Corea), che sostituì il pianoforte a partire dall'album Filles
de Kilimanjaro. Il dichiarato interesse di Davis per la musica di Jimi Hendrix (conosciuto tramite la
seconda moglie, la cantante Betty
Mabry) determinò poi l'aggiunta
stabile della chitarra elettrica, con
l'inglese John McLaughlin. Tuttavia, a costituire le maggiori innovazioni furono soprattutto una
nuova concezione dell'organizzazione del materiale musicale e le
modalità di impiego dello studio
di registrazione, a partire dall'album In A Silent Way e poi in misura maggiore proprio con Bitches
Brew. Scrivono gli autori: "L'album si presenta come un vero e
proprio processo formale, anziché
come una raccolta di brani distinti. Questa forma è l'effetto di una
intensiva ridisposizione del materiale registrato, a partire da un procedimento che inizialmente doveva essere nient'altro che selezione,
ma che si era presto trasformato
in vera e propria composizione".
Gli autori ripercorrono il processo creativo nei capitoli centrali del
libro, a partire dai tre giorni di recording sessioni fino ad arrivare al
lavoro di montaggio ed
editing svolto dal produttore Teo Macero. Se
nei dischi jazz la consolidata prassi era quella di registrare una serie
di take e scegliere poi la
migliore, in Bitches Brew
al contrario diverse take
erano "scomposte e rimontate secondo simmetrie sottilmente irregolari, che creano l'illusione di un
processo melodico in sviluppo". Lo
stesso procedimento (simile al collage non solo concettualmente ma
anche per la tecnica, visto che Macero usava colla e forbici per montare i nastri) verrà utilizzato anche
nei successivi lavori di Miles Davis, come Live-Evil e Miles Davis
at Fillmore, oggetto dell'ultimo capitolo del volume. Un lavoro monumentale, corredato da un'ampia
sezione, Apparati, e soprattutto dai
materiali audio ascoltabili sul sito
dell'editore, imprescindibili compagni di viaggio in questa lettura.
Altro pioniere delle sperimentazioni elettriche
nell'ambito jazzistico
fu senz'altro il pianista
canadese Paul Bley, come testimoniano alcuni dei capitoli di questo
volume autobiografico,
frutto di una serie di interviste dello scrittore e
contrabbassista David
Lee. Nello stesso periodo in cui venivano incisi In a Silent Way e Bitches Brew,
Bley divenne uno dei primi musicisti a utilizzare uno dei prototipi
di sintetizzatore elettronico, prodotti da Robert Moog. Tuttavia,
a differenza di Miles Davis, che in
pratica non abbandonò più le strumentazioni elettriche, la fase elettrica fu relativamente breve, per
quanto significativa, della parabola artistica di Bley. "Non c'era differenza tra la musica che facevamo
con strumenti elettrici e il free jazz
che suonavamo in acustico. Quel
che ci interessava non era cambiare la musica attraverso nuove sonorità, ma fare cose che con gli strumenti acustici non potevamo fare".
Il libro ripercorre il tortuoso percorso di vita e arte del pianista.
Gli inizi come sostituto di Oscar
Peterson; l'esperienza newyorkese
alla Jullliard School; le collaborazioni con le leggende del jazz Lester Young, Charlie Parker e Charles Mingus; il trasferimento sulla
West Coast e l'incontro con la prima moglie, la pianista e compositrice Carla Bley. Ma la svolta più
importante della carriera fu probabilmente la comparsa (quasi un'epifania) di Ornette Coleman e
Don Cherry durante un concerto
del suo gruppo a Los Angeles. "La
band aveva appena iniziato a suonare, e il club si svuotò completamente. Al primo assolo di sassofono la maggior parte delle note
smisero di essere entità discrete e
persero ogni riconoscibilità (...)
Con un singolo gesto, tutti i limiti di una struttura votata alla ripetitività vennero a cadere". Il fulcro
dei successivi sviluppi stilistici di
Bley sarà in effetti un totale ripensamento del pianoforte in termini
melodici e contrappuntistici. Non
stupisce, quindi, che, come detto, il canadese decidesse di passare
(insieme alla seconda moglie Annette Peacock) all'elettronica, forse nel tentativo di superare i limiti dello strumento. Tuttavia, pochi
anni dopo Bley tornò al pianoforte
acustico, a partire dal fondamentale album in solo Open, to Love per la Ecm di Manfred Eicher.
L'incontro con la terza moglie,
Carol Goss, sancì un'ulteriore fase: quella della sperimentazione
audiovisiva. Uno degli esperimenti più significativi fu Topography,
del 1974, in cui Goss sperimentava
con i feedback dei nastri video analogici, con il commento musicale del quartetto di Bley. "Il futuro
del jazz dipenderà da quanto sarà
in grado di interagire con l'elemento visivo, e in gran parte ciò sarà responsabilità dei musicisti". Un'affermazione profetica e quantomai
attuale, per un musicista che ha
segnato una delle più interessanti
traiettorie della musica del secondo Novecento.