Nei saggi raccolti in Una contesa che dura.
Poeti italiani del Novecento e contemporanei,
Fabio Moliterni rifà una storia della poesia italiana contemporanea come interrogazione. Si tratta di una scelta di campo intenzionale: l’autore
mette in atto una critica “partecipe” (Bodini) alla
letteratura intesa ancora, senza ingenuità ma
per statuto, come quel gesto intellettuale che riposa su una ratio interna e che prolunga all’esterno, sull’“essere in comune” (Nancy) degli
spazi di socialità e prassi, il proprio telos. Ne
deriva una postura critica che sostiene l’intero
volume: Moliterni non situa testi e autori in nessuna delle ‘linee’ – rette o per passaggi di fase
– invalse allo storicismo letterario; non li dispone per irriducibili ‘insiemi’ tematici o studies; né
asseconda “effetti di deriva” delusori e regressivi quando ragiona di poesia “postrema”. La categoria che orienta l’attraversamento dell’ultimo
secolo di scrittura in versi è invece quella della
“costellazione”, dell’insieme reso discreto da
una proprietà comune a ciascuno dei suoi elementi. La “quête conoscitiva” della parola poetica è così, volontariamente, assunta a principio
ordinatore che stringe in coerenza tutti e dieci
gli scritti, distanti, agli estremi, anche più di un
decennio (del 2006 è il sopralluogo sulla poesia
di Benzoni, Viviani e De Angelis; del 2020 l’introduzione al carteggio Sereni-Roversi, curato
anch’esso dall’autore), confermandosi meridiana stabile della sua ricerca.
I poeti scelti da Moliterni partecipano nella
loro scrittura – e su piani di discorso anche molto diversi fra loro, ma lucidamente colti e posti
in rilievo – della medesima disposizione euristica con la quale essi sono “convocatii”, da lui, a
testimoniare il proprio lavoro critico, in un’interrogazione che si fa quadratica e dialettica, e
squaderna una ricchezza non comune di riferimenti alla storia della cultura italiana: lo prova il
saggio dedicato al “dialogo a distanza” tra Bodini e Anceschi, che ricostruisce, a partire dal carteggio fra i due intellettuali, un ventennio di riflessione ininterrotta, aperta precocemente alle
relazioni con le poetiche europee del moderno
(dal barocco al surrealismo) e allo sperimentalismo italiano degli anni Sessanta.
Ma mettendo a frutto, verrebbe da dire, la
lezione più feconda della Stilkritik – da cui eredita quel “movimento pendolare tra commento e
interpretazione” che articola le pagine migliori
del volume – l’autore accorda priorità di analisi
interna al testo poetico, alle sue strutture di senso e ai suoi procedimenti formali, com’è evidente fin dallo scritto d’apertura: i limiti della resa
percettivo-sensoriale del linguaggio poetico, perimetrati da Rebora nel Frammento LI, emergono mediante un close reading brillante, in cui l’intuizionismo esercitato su elementi minimi dello
stile si salda e si legittima con lo sforzo di ricondurli, sempre, a una totalità. Se nel caso di Rebora questa rimanda a un compiuto sistema di
pensiero (Bergson e le filosofie della vita), nel
saggio che segue, dedicato alla poesia orficoreligiosa di Girolamo Comi, Moliterni può cogliere le tracce di un intero nell’entità enunciativa del
soggetto lirico, che verticalizza il suo inno spersonalizzato anelando a un assoluto scoperto
nell’armonia del Creato, ma tradendo anch’egli,
nondimeno, gli esiti travagliati di una “quête inesausta ma anche fragile, implicata negli aspetti
umani dell’esistenza”. Lo studio successivo
prende poi in esame la prima, malnota, stagione
poetica di Roversi, spesa tutta nella ricerca di
una pronuncia che desse forma all’“idillismo imperfetto o disforico” di una Stimmung deflessa,
appena uscita dalla guerra e perciò incline al
correlativo oggettivo di matrice ‘funebre’.
Moliterni delinea così, a partire da questo
saggio, una topografia dello “stile conoscitivo”
(Agamben) che non elude, ma anzi esalta e valorizza, “le modalità del colloquio tra i vivi e i trapassati” svelate, come un’isotopia, in ciascuno
dei suoi poeti: queste sostanziano il dantismo di
Sereni, oggetto di un studio capillare, che le rilegge quale dinamica testuale ricorrente nella
forma del “dialogo tra ombre”; si riattivano come
antidoto al nichilismo, alla paralisi esistenziale –
e forse unico trait d’union – nella polimorfa produzione di Benzoni, Viviani, De Angelis, Testa e
Inglese, ognuna restituita alla propria singolarità da campionature attente alle tradizioni che
esse instaurano o continuano, alle loro costanti
tematiche e retoriche; convocano le “voci grigie”
che inverano nella poesia di Fortini una “sincronicità di passato e futuro, natura e storia, io e
mondo […] chiama[ndo] il soggetto alla responsabilità dell’ascolto e dell’attenzione”.
Proprio Fortini altrove ebbe a dire che “la
poesia ha pur continuato ad essere una domanda sulla realtà e non solo una sua mascherata conferma”, e Moliterni, con questo libro
fortiniano ben oltre il titolo, aiuta la poesia a tenere viva quell’interrogazione e farne durare la
“contesa”.