Recensioni / Pluralità e dittatura

Perché nasconderlo? Fernando Antonio Nogueria Pessoa rappresenta qualcosa di particolare, forse di essenziale, per il sociologo che sono diventato. Alla base, tanti anni fa, un incontro casuale, nella libreria di una stazione di provincia, mentre aspettavo un treno che mi avrebbe portato nella sede di un convegno. Non avevo nulla da leggere, se non quello che riguardava certi miei approfondimenti teorici, e sentivo il bisogno di distaccarmene, almeno soltanto per le poche ore che mi separavano dalla meta finale. Attratto da una copertina verdeacquaquasiazzurrina, dominata da una testa con cappello che guarda verso un mare, decisi di acquistare uno dei testi più noti di Pessoa, Il libro dell’inquietudine di Bernardo Soares.
La parola inglese serendipity indica un accadimento fortuito, quando cerchi qualcosa e però ti imbatti in altro, e ciò cambia il corso della tua ricerca … o della tua vita (ne ha scritto anche il vecchio Robert K. Merton). Io cercavo diletto passeggero e ho trovato una svolta per i miei studi. E nuova linfa. Per carità, non voglio dare a Pessoa alcuna responsabilità per i miei umili risultati! Ma è stato per me un imbuto dal quale non sono più uscito. In particolare, quell’incontro mi ha portato a studiare delle cose strane, sicuramente inusuali per la ricerca più canonica, come il rapporto, più o meno celato, che i sociologi intrattengono con la letteratura, magari per vitalizzare le proprie ricerche. Lo so, di queste note personali il mondo potrebbe ben fare a meno; mi permettono però di introdurre un fatto che dà conto di certi pregiudizi sedimentati su Pessoa, poeta, narratore e saggista che, da un angolo appartato d’Europa, la Lisbona dei primi anni del Novecento, produceva pagine di parole, di idee e di vite gran parte delle quali cacciava in un baule che – come argutamente titola un libro di Antonio Tabucchi – diveniva… pieno di gente.
I pregiudizi hanno a che fare con le sue presunte idee politiche. Dopo che scrissi un libriccino dedicato a Pessoa, e soprattutto a quell’incontro, un anziano professore della prospettiva da cui guardo il mondo, di quelli che hanno lasciato il segno su generazioni di studenti prima e di studiosi poi, e soprattutto immensamente stimato dal sottoscritto, mi scrisse una mail per elogiare quel mio lavoretto (come solitamente si fa) ma anche per dirmi (e questo solitamente non si fa) di essere stato sorpreso dall’interesse che tributavo a uno scrittore segnato da una profonda vena reazionaria e antidemocratica. Provai a balbettare per iscritto qualche risposta. Ma il tono di sorpresa dell’anziano professore mi aprì gli occhi sulla problematica ricezione di Pessoa, non soltanto in Italia.
Fino ad allora, in quell’avido saccheggio che facevo nel virtuale baule, poco mi ero interessato alle posizioni politiche di Pessoa, tanto ero preso dal vortice eteronimico in cui mio ero ritrovato, caratterizzato da dialoghi tra persone immaginarie eppure così reali. E poco mi soffermavo su alcuni appunti critici, letti qua e là, che enfatizzavano tratti antidemocratici o di prospettiva elitista di qualche scritto. Ed ero comunque rassicurato dall’amore tributato a Pessoa e alla sua opera da Antonio Tabucchi, intellettuale – come è noto – ben lontano da sospetti del genere.
Ero soprattutto affascinato dal brusìo che Pessoa era in grado, con abilità di ventriloquo, di far promanare da tutti i suoi eteronimi, da Alvaro de Campos ad Alberto Caeiro, da Bernardo Soares a Ricardo Reis e molti altri: brusìo nel quale erano modulate prospettive e stili poetici differenti (tra i poli del classicismo e del modernismo) e soprattutto tanta poesia e prosa che a fatica si può credere uscita dalla stessa penna. Perché Pessoa dotava i suoi eteronimi di completezza biografica e vitale, e giustificava questa sua sovraumana opera come un bisogno che, da mentale, diventava fisico (quand’anche abbia un senso questa separazione): quando affermava qualcosa, una idea, un concetto, una certa prospettiva, sentiva il bisogno tenace di dare parole alla posizione opposta.
Chi ha un poco di dimestichezza con la sociologia e le scienze sociali può ben capire come alla base vi sia una reazione, disperata e che solo sul piano poetico e artistico può conseguire qualche risultato, di ritrovare coerenza attraverso la pluralizzazione della coerenza, di fronte a un secolo, il Novecento, che fa a pezzetti la vita e la completezza vitale. Insomma, l’apoteosi della pluralità: aspirazione a mettere in dialogo tutte le posizioni che a tutto mi facevano pensare fuorché a una figura di reazionario antidemocratico.
È però vero che il dittatore portoghese António de Oliveira Salazar, a corto di cantori del suo regime, appena dopo la morte di Pessoa, era il 1935, ordinò a certi suoi mastinotti intellettuali di rovistare dentro il famoso baule alla ricerca di annotazioni che dessero lustro al suo regime: ne trassero quel poco che permise loro di non venire puniti dal potente committente e, da allora, diversi altri si sono esercitati nel tentativo di cucirgli addosso una camicetta nera, anche in Italia. Certo, quando vuoi dare tono a tutte le posizioni, qualche rischio pure lo prendi; inoltre, certe idee un poco avventate di Pessoa (e poi sconfessate) sulla possibilità rappresentata dallo Estado Novo per il suo Portogallo devono avere aiutato i procuratori di intelletti nelle file reazionarie. È da qualche mese nelle librerie un’antologia di testi pessoani che tenta di fare ordine in questo marasma. Si intitola Sul fascismo, la dittatura militare e Salazar (Quodlibet 2022), ed è curato, nella edizione originaria, da José Barreto; in quella italiana, da Vincenzo Russo. Quest’ultimo nella sua introduzione sottolinea l’anomalia di Pessoa: «Queste pagine politiche richiedono interpretazioni mai univoche, omogeneizzanti o energiche perché Pessoa non si lascia catturare-decifrare da griglie imposte che a volte lui stesso sembra suggerire: insomma, per evitare di cadere in certe cristallizzazioni ideologiche di un autore impossibile da sorprendere in schemi usurati di tassonomia politica». Il volume, corposo ma che può essere affrontato partendo dall’ultima pagina, da quelle di mezzo e persino dal principio, è una raccolta dei testi dedicati da Pessoa al tema delle dittature e dei dittatori, soprattutto a Salazar e a Mussolini, anche se non mancano riferimenti alla dittatura sovietica e al Nazismo. Ecco come appare Salazar in una satira caustica:

Questo signor Salazar
È fatto di sal e azar (mala sorte, in portoghese).
Se un giorno piove,
l’acqua scioglie il sale
e rimane solo l’azar, è naturale.
Oh, diavolo cornuto!
Pare abbia già piovuto.

Nelle righe che seguono, i noti stereotipi sul fascismo italiano, evidentemente ben diffusi anche all’epoca, sono rivoltati contro la dittatura in maniera tanto spiazzante quanto feroce:

La principale opera del fascismo è il miglioramento e l’organizzazione del sistema ferroviario. I treni oggigiorno funzionano bene e arrivano sempre in orario. Per esempio, tu vivi a Milano, tuo padre vive a Roma. I fascisti uccidono tuo padre ma tu hai certezza che, prendendo un treno, arrivi in tempo per il funerale.

Più complessa la questione del colonialismo, così legata alla storia portoghese ed europea, e che ha fortemente condizionato la stessa vita di Pessoa, che proprio nelle colonie inglesi passò una parte importante di adolescenza e di formazione (a Durban, dove apprese l’inglese così bene da scrivere in quella lingua importanti sonetti). Lo stesso linguaggio pessoano, soprattutto negli scritti che fanno parte della sua produzione più politica, è popolato di termini come civilizzato o incivilizzato, razza, selvaggi e altro ancora; evidentemente si tratta di un lessico che all’epoca non faceva scandalo, e il cui stridore è sì ben percepibile, ma soltanto dalla prospettiva di una epoca differente. Nonostante tutto ciò, ecco cosa scrive del colonialismo italiano e del concetto di civilizzazione:

In primo luogo, non esiste argomento interamente plausibile a favore del fatto che una qualunque nazione si arroghi il dovere di civilizzarne un’altra. In secondo luogo nessuno ha consegnato all’Italia il compito di civilizzare l’Etiopia. Si aggiunga che nessuno sa di certo cosa significhi la parola «civilizzazione»; parola che, come la maggior parte dei termini correnti, significa per ognuno la cosa che vuole o che gli conviene.

Ancora impegnato nella sua veemenza contro il fascismo mussoliniano, afferma: «Ebbene, l’Italia fascista considera l’uomo una cosa, infatti lo considera sottoposto allo Stato, l’Italia fascista disprezza tutte le libertà individuali». Libertà, ecco una parola che, pur con la cautela che si deve usare con una pluripersonalità come quella di Pessoa, può tornare utile nella ricerca di qualche tessuto connettivo. Una parola che ben sembra coerentemente al centro di un individuo che si pluralizza in maniera inattesa, casuale, vitale. Un’estetica che trova una dimensione politica coerente proprio nella libertà di essere tutte le vite che possono essere vissute. Era quindi contro tutto ciò che si opponesse all’individuo e alla sua libertà, anche di quegli individui che dimoravano in una sola vita anagraficamente legittimata. Concludo allora con le parole di Pessoa, tratte da quello stesso volume, che rivelano la esigenza di rivendicare la libertà contro tutte le dittature, ma proprio tutte:

No, noi liberali non accettiamo.
Non accettiamo un governo chiamato del «popolo» che presuppone l’uso della forza che deriva dall’aritmetica, generalmente fraudolenta, di elezioni per sopprimere tutte le libertà e opprimere tutti gli spiriti. Tanto vale, allora, un governo autoritario che almeno mantiene l’ordine nelle strade.
Potranno erompere in tutti gli evviva, tranne uno. Non potranno mai gridare: Viva la libertà!
Maledizione, sono tutti totalitari!