Grazie a Quodlibet è da poco tornato in Italia il capolavoro teorico del designer viennese Victor Papanek, Design per il mondo reale (nell’edizione inglese significativamente sottotitolato Human Ecology and Social Change ). Uscito originariamente nel 1971, quando l’autore aveva poco più di quarant’anni e si barcamenava tra lavori precari e insegnamento, il saggio era destinato a fare epoca e scuola, contribuendo a gettare le basi per i movimenti di architettura sostenibile e design umanitario che avrebbero preso le mosse anche a partire dallo stesso lavoro di Papanek nei decenni successivi. Appena pubblicato il libro Design per il mondo reale confluì in - e divenne bandiera di - una vera e propria serie di forti critiche al modernismo e agli eccessi nei campi dell’architettura, del design, dell’industria e delle corporazioni statunitensi figlie del dopoguerra.
Ciò contro cui Papanek punta il dito erano le soluzioni nel design, in architettura e in urbanistica che l’autore riteneva non sintetiche, a vario titolo dispendiose, talvolta addirittura pericolose, dannose per l’ambiente o semplicemente lontane dalle effettive esigenze della gente comune. Ciò che l’autore non sopporta è quella che definisce la “cultura Kleenex” – cioè usa e getta – delle società occidentali. Indica nella superficialità il suo nemico, riservando un disprezzo particolare per gli approcci che mancano di profondità e che spesso a suo avviso costituivano la base dei programmi delle scuole di design.
Fino ad oggi la direzione del lavoro dei designer, dice Papanek, è paragonabile a quel che accadrebbe se tutti i medici abbandonassero medicina generale e chirurgia per concentrarsi esclusivamente su dermatologia e cosmetica. Al di là del piglio irriverente, Design per il mondo reale si è dimostrato un libro premonitore. Inevitabilmente alcuni passaggi oggi appaiono datati, così come alcune delle soluzioni che Papanek propone come modelli di un nuovo approccio, ma la verità è che in gran parte il libro potrebbe uscire domattina senza sembrare fuori tempo massimo. L’attenzione di Papanek per le questioni ecologiche e sociali, indicate come veri e propri pilastri della pratica del design, è di fatto ancora attuale anche mezzo secolo più tardi. “Il problema principale con le scuole di design”, scrive, “sembra essere che insegnano troppo sul design e non abbastanza sull’ambiente sociale e politico in cui si applica”. In certi passaggi l’autore anticipa i dibattiti sul design universale degli anni ’80, così come l’interesse per gli orti urbani, e i movimenti slow food e 15 minute city. Non sorprende che Papanek sia diventato una persona non grata in certi circoli degli anni Settanta, anche se a posteriori sembra chiaro che in una certa misura godesse del suo status di outsider.
Papanek identifica una vera e propria frattura connaturata alla professione di designer: è quella che sta tra l’impegno reale e la capacità di vendere, in altre parole tra le forme di design dotate di una intrinseca necessità e quelle volutamente raffinate per il mercato. Sia nel campo del design che in quello dell’architettura questo iato, questa sorta di doppia personalità, è fondamentale e sostanzialmente insanabile. Ed è importante riconoscerne l’esistenza. Da un lato non mancheranno mai denaro e prestigio da inseguire in un tipo di progettazione che risponda principalmente alle dinamiche di mercato. E dall’altro non mancheranno figure come lo stesso Papanek, pronte a fare appello all’integrità dei designer e ai bisogni più profondi degli esseri umani e del pianeta.
È interessante chiedersi perché questo libro riesca a non suonare vecchio. In parte dipende dagli ideali che lo innervano, questioni come l’accesso agli spazi pubblici, l’integrità progettuale e l’equità sono ideali senza tempo, destinati a non cambiare. Non è un caso che Papanek riempia diverse pagine inveendo contro l’idea di moda – in senso lato. Per lui le tendenze e l’obsolescenza programmata sono concetti intrecciati: le mode vanno e vengono solo come pretesto per spingere il pubblico all’acquisto di beni di cui non ha davvero bisogno.