Recensioni / Isabella Ducrot. Ho imparato a leggere la trama della vita

Quella di Isabella Ducrot è una bella favola. Che vi vorrei raccontare insieme a lei. A lei così straordinariamente femminile, dotata di grazia, intelligenza, curiosità e meraviglia. I suoi 92 anni resistono ai segni del tempo che passa. La sua vita è stata e continua ad essere un insieme di sorprese alle quali si adatta con la stessa eleganza e creatività con cui confeziona le sue opere. Perché Isabella, in tarda età si è scoperta artista. E non è la malinconica conclusione alla quale spesso si perviene dopo aver speso una vita a fare altro. No. Le sue opere hanno incontrato il gusto e l'attenzione di galleristi internazionali al punto che si può dire che sia più famosa fuori che da noi.

So che sei nata a Napoli.
«E così e mi sento napoletana, anche se da molti anni vivo a Roma. Napoli è per me un luogo dello spirito».

Tante città lo sono.
«Ma Napoli lo è in modo particolare».

Intendi il sacro che vive sottotraccia.
«I napoletani, almeno quelli che ho conosciuto, vivono come se dovessero morire da un momento all'altro. Questo dà un significato particolare alla parola sacro».

Vuoi dire religioso.
«Tutto a Napoli si riveste di religioso: dal sartù di riso al babà, da Maradona a San Gennaro».

Tutti a Napoli chiedono la grazia.
«E la sola cosa che si può chiedere, anzi non si chiede. Si esige».

E tu l'hai mai chiesta?
«Vengo da uno strano ambiente: cattolico e liberale. Ho studiato dalle suore. Ma non penso di averla mai chiesta. Neppure quando da giovane mi sono ammalata di tubercolosi».

Ne sei uscita guarita.
«Sì ma fu dura. Sette lunghi anni di cure. La sensazione che non finisse mai e la vergogna dei miei che proprio io avessi contratto una tale malattia».

Vergogna perché?
«Perché allora era come essere contagiati dall'Aids. Mia madre non volle che ne parlassi con nessuno. Dovevo far finta di niente. Tosse, sangue, pallore, stanchezza. E io lì a sorridere».

A Napoli dove vivevi?
«A Montedidio, dove sono nata».

E un quartiere?
«Sì, una specie di dorsale in bilico tra il mondo interiore ed esteriore. Abitavamo in un palazzo seicentesco che durante la guerra fu bombardato. Noi eravamo sfollati a Sorrento. Poi, mio padre tornò dalla guerra e occupò quelle rovine».

Tornaste ad abitarvi?
«Sì, certo. Dell'edificio era restato in piedi solo un angolo di sei piani. Portammo i mobili e ci piazzammo lì e vi siamo rimasti per 12 anni, dal 1946 al 1958».

Surreale.
«La verità è che abbiamo vissuto quella situazione anomala come fosse normale. Vedevo mio padre, che aveva ripreso la professione di avvocato, uscire elegantissimo la mattina da quelle macerie».

Miseria e nobiltà.
«Vissute in modo stravagante con le tracce di un antico splendore: lo scalone che arrivava ai nostri alloggi era a cielo aperto. Le maniglie delle porte dorate. I pavimenti antichi. Sembravamo dei castellani. Improvvisati e sfrontati. Almeno io lo ero».

E nel 1958 che accadde?
«Finimmo in una casa cosiddetta civile. Fino a quel momento avevamo vissuto in modo ambiguo».

Avevi genitori eccentrici.
«Diciamo che si comportavano da eccentrici. Anche la cosa più strana o dolorosa, come la Tbc, doveva essere vissuta come normale. Magari vergognandosene. Ma ritenerla normale».

Guarisci dalla tubercolosi e poi?
«Avrei potuto lavorare, sposarmi e avere figli. Fu quello che pensai dopo l'ultimo incontro con la dottoressa che mi ebbe in cura».

Lo pensasti perché fu lei a convincerti?
«Era una donna dai seni abbondanti e dalle parole minute. Quando mi disse quelle cose parlava al mio corpo. Meno al mio stato d'animo».

Eri turbata?
«Ero incredula che dopo sette anni di controlli medici quindicinali, durante i quali mi veniva praticato lo pneumotorace, potessi definirmi guarita. Ringraziai la dottoressa che in tutto quel tempo con destrezza mi infilava sotto l'ascella l'ago attaccato alla pompa che immetteva l'ossigeno. Guarii, quasi senza accorgermene».

Fu l'ultima volta che la vedesti?
«Sì, restammo alcuni minuti in silenzio. Congiungemmo le nostre mani le une in quelle dell'altra. Strette, come se da un momento all'altro dovessero volare via. Dopo annidi rigide formalità, di raccomandazioni, di ricette farmaceutiche, di consigli, eravamo improvvisamente vicine. La dottoressa autoritaria aveva lasciato il posto alla donna affettuosa. Fu l'ultima volta che la vidi, anche perché di lì a poco mi sarei trasferita a Roma».

A che età andasti via da Napoli?
«Avevo 28 anni, era il 1959. Quell'anno, come ti dicevo, avevamo traslocato nella nuova casa».

Tu andasti a Roma perché?
«Perché era giunto il momento di cambiare vita. Fu dura. Ma la città offriva buone occasioni. Lavorai come telefonista per l'Ibm, nel tempo libero frequentavo ambienti di intellettuali comunisti. Poi conobbi Vicki, l'uomo che avrei sposato e con il quale ho condiviso tutto fino alla sua morte».

Lo dici come se fosse ancora qui.
«E stata una persona speciale, proveniva da un'importante e ricca famiglia palermitana. La famiglia Ducrot arredava i transatlantici. Pensa che allora credevo che Palermo fosse una succursale di Napoli. Mi sbagliavo. Era una città ricca di presenze, di storie nascoste e a volte esibite, di cultura remota e contemporanea».

Tu cosa percepivi di tutto questo?
«Ero abbastanza inconsapevole. Mi colpì che in quella città potessero convivere le scene del Gattopardo che Visconti aveva incominciato a girare alla fine del 1962 e le prime avvisaglie del Gruppo '63 che proprio a Palermo aveva trovato accoglienza entusiastica».

Non stridevano le due immagini?
«Stranamente convivevano. Lo slancio estetico viscontiano, protagonista un principe che aveva sentenziato che tutto cambi perché nulla davvero cambi, e l'ubriacatura di modernità che si era abbattuta sulla città. E tutte queste cose non le ho programmate, mi sono accadute».

Solo accadute?
«Mio marito è stato la mia accademia, la mia formazione. Ed è curioso, perché Vicki, a differenza dei miei amici comunisti, era un conservatore. Si era laureato in diritto americano. La madre era una ricca ebrea newyorkese. Ti dico queste cose perché mi sentivo l'outsider».

Una condizione ideale per capire quello che succedeva.
«Forse sì. Mi verrebbe voglia di scrivere l'elogio del parvenu. Il mondo sarebbe noiosissimo senza la sua presenza».

Di solito si usa "parvenu" in senso dispregiativo.
«Lo so, ma per me che sono quasi sempre stata in un mondo più grande di me, per me che ho a lungo sofferto di inadeguatezza, per me che non volevo migliorare la mia condizione, la parola "parvenu" era la sola che mi faceva intuire che non dovevo più stare al mio posto. Ecco, da un certo punto in poi non sono più stata al mio posto».

Anche diventare artista ha voluto dire non essere al tuo posto?
«Non avendo mai preteso o aspirato a quel ruolo, direi che è stato come scoprire un altro luogo. Assumere una nuova identità».

Quando ti è accaduto?
«In modo continuativo da qualche anno. Sullo sfondo c'era la mia ossessione per i tessuti. La collezione di stoffe che raccoglievo in giro per il mondo. Mi sono sempre occupata di stoffe. Di tessiture. E da dove questa passione mi sia venuta non lo so. Forse dai viaggi Soprattutto dall'India».

Che cosa ti attraeva di queste stoffe che hai collezionato?
«Penso che ogni tessuto sia il presupposto delle nostre civiltà: dalle più antiche a quelle recenti. Dal tessuto nasce la veste che adorna o copre un corpo. Il tessuto è il grado zero del nostro modo di stare al mondo. La matassa, i fili, i colori, il taglio possono essere disegno, forma, scrittura».

Scrittura?
«Ma sì, mi viene in mente "Preghiera blu". Il blu nel buddismo è un colore prezioso. Più dell'oro. Indica la saggezza, l'ascesa a una condizione spirituale. Quella stoffa ha in superfice un'invocazione in lingua tibetana».

Un ricamo?
«Più che un ricamo, un'alleanza sacra tra testo e tessuto, pensiero e materia. E questo prima ancora che si usasse la carta. Acquistai la "Preghiera blu" da Lisbet Holmes, una celebre antiquaria londinese di tessuti antichi. Fu lei a introdurmi ai segreti di un'arte che aveva dell'incredibile».

Lo dici come se quella donna ti sia stata imprescindibile.
«Lisbet era una vecchia avventuriera, vestita con elegantissimi abiti di seta grezza. Una volta l'anno partiva da sola per Katmandu e da lì proseguiva fino ai confini della Cina. Ascoltai i suoi discorsi, talmente favolosi da lasciarmi a bocca aperta. Seguiva rotte fuori dal turismo. Entrava in villaggi sperduti del Nepal per incontrare mercanti e contrabbandieri di stoffe: sete dai colori sgargianti, rari indumenti damascati, broccati splendidi, stracci unici. Da lei, davanti a ripetute tazze dite, ho appreso l'arte del racconto e quella dei tessuti».

Hai scritto racconti e un libro "Stoffe" dove illustri la tua collezione.
«"Stoffe" uscì in inglese, una gallerista di Colonia si innamorò del libro e venne a Roma per conoscermi. Vide anche i miei lavori. Gli interventi che facevo sui tessuti le piacquero a tal punto da prendersi cura delle mie opere. Sono stata ad Art Basel, a Berlino, in America. Credo di essere più conosciuta fuori che in Italia».

E questo successo ti ha cambiata?
«La mia storia somiglia a quella di Moli Flanders e mi fa dire: signori la mia vita è stata un romanzo». Hai molti "lettori". Tra questi Patrizia Cavalli. «Mi spiace che se ne sia andata. Non era una donna facile, ma l'ho amata come si ama chi possiede la grazia della poesia».

Che vuol dire che non era facile?
«Tutto si riconduceva al suo mondo: al gioco, alle battute folgoranti, ai versi bellissimi. Non c'era spazio per altro. Il fatto che avesse scritto su di me, lo vedevo oltre che come un dono anche come un modo per distogliersi da sé. E lo consideravo il più grande complimento che mi potesse fare. Ma era al tempo stesso la persona più ruvida che avessi conosciuto. Un giorno le dissi: tu confondi la gentilezza altrui con una forma di debolezza. Ma ti sbagli. Ricordo che il giorno dopo mi telefonò. Ma stavo partendo per l'India».

Hai molto viaggiato.
«È curioso ma da ragazza non l'avevo mai fatto. Ho cominciato a viaggiare già da molto grande. E mi sono sentita come una carta assorbente, capace di apprendere ovunque. Ho viaggiato spesso con Vicki. E la cosa della quale gli sono grata è che non mi ha mai fatto pesare le sue conoscenze».

Credo che avesse una delle più belle collezioni di rose.
«Ci invase l'ossessione per i giardini e io gli dissi dobbiamo fare un giardino botanico di sole rose. Si fidava di me. Del mio intuito. Fu lui a dirmi la prima volta di non stare al posto mio».

Ti manca la sua presenza?
Tantissimo e so che morire mi spaventa molto meno da quando ho capito che era un modo di stargli più vicino. Ho capito che il dolore è un'invenzione cristiana e che Vicki era un animale ferito. Ricordo che prima di essere portato in ospedale mi chiese con un filo di voce un buon bicchiere di vino rosso. Ecco, in lui fino all'ultimo c'era un grande attaccamento alla vita».

E tu, ti senti legata a questa vita?
«Te l'ho detto, sono una specie di outsider che ha avuto dalla vita più di quanto abbia chiesto. Ma possa aggiungere che la mia dignità la misuro con tutto quello che ho patito per avere ciò che ho ottenuto».