Recensioni / Victor Papanek: il design come potrebbe essere

La prima volta che ho sentito nominare Victor Papanek (1923 - 1998) è stato verso la fine degli anni settanta per bocca di AG Fronzoni, che ne consigliava il libro, allora intitolato Progettare per il mondo reale (da poco uscito in Italia per i tipi di Arnoldo Mondadori e già molto famoso, con il significativo sottotitolo di Il design: come è e come potrebbe essere) ai suoi studenti per stimolarne il giudizio critico nei confronti della professione che si sarebbero apprestati a intraprendere al termine del loro ciclo di studi. Eravamo in un’aula dell’Istituto Statale d’Arte di Monza, la scuola di design più straordinaria del panorama scolastico italiano di quello scorcio di secolo, dove io, da poco laureata, avevo incominciato a insegnare Storia dell’Arte. E Fronzoni, di cui, il 5 marzo di quest’anno ricorre il centenario della nascita (così come il 22 novembre prossimo ricorrerà quello di Papanek, essendo, i due, coetanei), avrebbe continuato a inserire quel libro nella bibliografia propedeutica del suo corso fino all’ultimo dei suoi giorni di insegnamento. Ricordo che le citazioni più frequenti che ne traeva e indubbiamente le sue più amate e quelle che maggiormente condivideva erano:

“Il design è fondamentale per tutte le attività umane. La pianificazione e l’esecuzione in base a un modello prefissato di ogni atto verso un fine prestabilito e prevedibile sono un processo progettuale. Ogni tentativo di separare il design dal resto, di farne qualcosa sé stante, è contrario all’intimo valore della progettazione intesa come matrice primaria e intrinseca della vita.”

E ancora:

“Ogni uomo è un designer. Tutto ciò che facciamo è quasi sempre design, proprio perché il design sta alla base di ogni attività umana.”

Le scriveva sulla lavagna della sua aula, con quella sua grafia così precisa che pareva stampata ma che si capiva benissimo che invece non lo era, invitando i suoi allievi a riprodurle, per ‘allenare’ la mano e la mente.
Ma un altro grande docente di quella scuola, Roberto Orefice (qui su Doppiozero), faceva interagire i suoi studenti con il gioco del Takete Maluma, caro anche a Papanek e del quale parla nel suo libro.
Oggi, a distanza di mezzo secolo dalla sua prima uscita americana, con il titolo di Design for the Real World, Human Ecology and Social Change, che ebbe la prefazione di Buckminster Fuller e fu un successo editoriale mondiale, tradotto in più di venti lingue, la sua ristampa era assolutamente doverosa e necessaria, soprattutto perché esso non è stato soltanto un libro profetico, ma è una raccolta di pensieri e di propositi più che mai attuali, per non dire addirittura all’avanguardia. Ed ecco Quodlibet riproporne ora l’edizione, con il titolo e il sottotitolo identici alla versione USA, di Design per il mondo reale. Ecologia umana e cambiamento sociale (pp. 423, € 24) e la cura di Alison J. Clarke ed Emanuele Quinz.

La stigmatizzazione più famosa di Victor Papanek, che è anche l’incipit del primo capitolo del suo libro, mette in guardia contro la pericolosità del mestiere del designer industriale:
“Fra tutte le professioni, una delle più dannose è il design industriale. Forse, nessuna professione è più falsa. Il disegno pubblicitario, che tende a persuadere la gente ad acquistare cose di cui non ha bisogno, con denaro che non ha, allo scopo di impressionare altre persone che non ci pensano per niente, è forse quanto di più falso oggi possa esistere. Subito dopo arriva il design industriale, che appronta le sgargianti idiozie propagandate dagli esperti pubblicitari.”
D’altra parte gli anni che hanno immediatamente seguìto il sessantotto sono stati quelli dei grandi sommovimenti nella storia del costume e del modus vivendi e cogitandi, quelli delle denunce militanti di Ralph Nader, di Vance Packard, quelli della critica al consumismo di Jean Baudrillard, delle radicali negazioni e delle strabilianti proposte e così, nel campo del design, Papanek divenne il guru del design sostenibile e socialmente utile. Essendo soprattutto un progettista, prima di essere un teorico, lo proponeva, lo applicava lui stesso e ne propagandava la necessità per avversare quello che riteneva fosse il tradimento del fondamento stesso del design. Si scagliava persino contro i principi sostenuti, al suo nascere come disciplina, dal Bauhaus, e precisamente quelli della progettazione di oggetti d’uso che avessero una forma confacente al loro utilizzo (il famoso binomio forma/funzione) sostenendo, per contro, la non necessità della bellezza della forma a favore dell’imprescindibile utilità sociale e della accessibilità economica degli oggetti progettati, insieme alla loro sostenibilità in relazione all’ambiente. Teorizzava e praticava, insomma, nei progetti di design la priorità assoluta della soddisfazione dei bisogni reali dell’uomo e non di quelli fittiziamente imposti dal mercato e dalle regole del consumismo, auspicando e suggerendo un loro approccio etico e politico.
Come un sacerdote di questa nuova religione, che avrebbe avuto e che ancora conta numerosi accoliti, nel suo libro Papanek predica l’urgenza di porre un argine alla deriva che, invece, a partire dal secondo dopoguerra, ha condotto il design, soprattutto quello americano, dominato dallo styling e dalla ricerca della modernità a tutti i costi, a farsi strumento del consumismo più esasperato per arricchire le sole industrie produttrici creando oggetti inutili, spesso sciocchi e comunque sempre costosissimi e i designer a essere interessati, il più delle volte, ai facili guadagni a discapito dell’ambiente.
Mentre, secondo il suo pensiero: “Tutto il design è una sorta di educazione. Si può fare dell’educazione studiando o insegnando in una scuola o in una università, o mediante il design. In quest’ultimo caso il designer cerca di educare il suo cliente-fabbricante e la gente che acquista sul mercato.”
Egli fu dunque il paladino del design sostenibile e sociale che oggi, per fortuna, conta molti sostenitori tra i fautori del care design, della cultura del riuso, dell’upcycling e dei vari maker: fu, insomma, un anticipatore del design transdisciplinare del XXI secolo.
Forti analogie si possono poi riscontrare tra il suo pensiero “sull’esplorazione di modelli di progettazione alternativi che andassero al di là della cultura capitalista della merce” (Clarke) e il radical design italiano; soprattutto ve ne sono con l’esperienza del Global Tools (1973 – 1975), di Andrea Branzi, Ettore Sottsass Jr, Alessandro Mendini, Gianni Pettena, Ugo La Pietra, Superstudio e UFO, con l’apporto degli artisti concettuali Germano Celant, Luciano Fabro e Giuseppe Chiari.
Alcuni capitoli del libro hanno titoli che suonano come slogan provocatori, di stampo un po’ New dada, quali, ad esempio: Assassinio su scala industriale; La civiltà del Kleenex; Filogenocidio; Il mito del villan rifatto, etc. In realtà, Papanek ha riproposto su carta stampata i titoli delle Design Dimensions, le trasmissioni televisive di grande successo da lui realizzate negli anni sessanta, molto prima di dar corso all’idea del libro, che, in fondo, ne raccoglie i contenuti, se pure ampliandoli. Con esse egli aveva divulgato tra il vasto pubblico americano non soltanto le proprie idee sul design in chiave aspramente critica dell’esistente, ma anche in direzione propositiva di come avrebbe potuto essere, esattamente come recitava il sottotitolo del suo libro nella prima traduzione italiana.
Lo spunto di impiegare il mezzo televisivo glielo aveva fornito il grande George Nelson (a cui si fa cenno qui su Doppiozero), che fu il primo a realizzare, negli anni sessanta un breve filmato, dal titolo parodistico e sarcastico di How To Kill People, in cui sosteneva la causa di una migliore comprensione del design.
Il libro di Papanek non è da intendersi come un manuale per il designer, quanto, piuttosto, come un decalogo di quel che questi non deve e può invece fare, quasi un manifesto programmatico, insomma, come quelli stilati dalle avanguardie artistiche del novecento, solo assai più lungo (423 pagine!) e con la bibliografia più ponderosa che mai libro abbia avuto (500 titoli!). In esso, Papanek ci propone un modo nuovo di affrontare il mestiere del designer, più umanista e meno tecnico, più corale e meno individuale (ciò che egli chiama minimal Design Team). Infatti, secondo lui, il ruolo del designer non dovrebbe più essere tecnico (conoscenza dei materiali e dei processi di realizzazione delle ‘cose’) finalizzato alla produzione industriale di merci, ma dovrebbe invece diventare quello di un pensatore capace di correlare fra loro gli apporti di discipline diverse, quali l’antropologia, la filosofia, la sociologia, l’ecologia, al fine di ‘inventare’ nuovi processi produttivi che acquistino un carattere più sociale e politico, nel senso etimologico del termine.
In ultima istanza, il designer non dovrebbe occuparsi più come invece fa ora, di progettare nuove ‘merci’, ma dovrebbe occuparsi invece di reinventare i processi stessi del produrre conferendo una cifra sociale e ambientalista a ciò che progetta. Così scrive Papanek:

“Il designer deve avere coscienza della sua responsabilità sociale e morale. Infatti, il design è lo strumento più potente che l’uomo abbia per poter dare una forma ai suoi prodotti, ai suoi ambienti e, per estensione, a se stesso: mediante i progetti l'uomo deve analizzare le conseguenze dei suoi atti nel passato e nel prevedibile futuro. ”

Un altro filone lungo il quale si sviluppa il pensiero intorno al design di Victor Papanek è quello contro la produzione globalizzata, a favore di una localizzata, ovvero legata alle culture dei singoli paesi del mondo (un po’ alla William Morris, rifiuto della macchina escluso) nel rispetto delle tradizioni e dei materiali autoctoni. Ne è un esempio il suo progetto del 1969, per l’UNESCO, firmato insieme a George Seeger, della radio Tin Can Radio. Realizzata con dei barattoli di alluminio riciclati e alimentata da sterco, fu concepita per essere distribuita gratuitamente nei paesi dell’allora definito Terzo Mondo. Era inoltre possibile personalizzarne l’aspetto, ornandola, ad esempio con paillettes o conchiglie dai colori vivaci, o con motivi in linea con le tradizioni dei gruppi di utenti del posto.
Ma Papanek anticipò di un anno persino il nostro Enzo Mari (qui su Doppiozero) quale fautore dell’autoprogettazione. Infatti, nel 1973 pubblicò, insieme al collega designer James Hennessey, il Nomadic Furniture con il seguente sottotitolo: “Come costruire e dove comprare mobili leggeri che si piegano, si gonfiano, si riducono, si impilano o che, essendo usa e getta, si possono riciclare – con tante istruzioni illustrate facili da seguire." In più, si fornivano agli utenti diagrammi di progetto e istruzioni minuziose, incoraggiandoli a scoprire, insieme alla bassa tecnologia, le potenzialità costruttivo-strutturali e la riciclabilità dei materiali naturali, come, ad esempio, il cartone.

Di origine viennese, nel 1938 Victor Papanek emigra negli Stati Uniti a seguito della Anschluß dell’Austria alla Germania e si stabilisce a New York, dove frequenta dapprima la scuola progressista Cooper Union School of Art, quindi, nel 1949, il Massachusetts Institute of Technology, dove si laurea.
Dopo un apprendistato presso Frank Lloyd Wright, lavora nello studio dell’altrettanto illustre Raymond Loewy (quello della nuova bottiglia e delle lattine della Coca Cola, dei loghi della Shell, della (De)Spar, delle Lucky Strike, quello della Lancia Flaminia Loraymo, della BMW 507, dell’Air Force One di J. F. Kennedy, dei treni e dei bus aerodinamici che sfrecciavano per l’America del sessanta, citando solo alcuni dei suoi famosi progetti, giusto per dovere di cronaca), il designer di origine francese che coniugando la sensibilità estetica europea all’intraprendenza commerciale americana ha trasformato il design industriale da disciplina artistica in business. Sarà proprio qui che il nostro inizierà a maturare le sue riflessioni critiche nei confronti del design system e della società dei consumi cercando nuove vie. A offrirgli numerosi spunti contribuiranno i suoi frequenti soggiorni presso i nativi americani Navahos, presso gli Esquimesi e gli indigeni di Bali (senza contare i suoi periodici viaggi in Finlandia e in Svezia) fornendogli idee che egli metterà poi a punto quando fonderà il proprio studio, chiamato, molto emblematicamente, Design Clinic. È da lì, dai convegni, dalle trasmissioni televisive, dai suoi libri ma, soprattutto dalle aule universitarie dove avrebbe insegnato che avrebbe condotto il suo proselitismo, incoraggiando i “nuovi apostoli del design industriale a non bussare più alla porta delle multinazionali, per cominciare a bussare alle porte dei paesi in via di sviluppo, delle cliniche, degli ospedali”, dando vita a un Design per il mondo reale.
Il 22 novembre di quest’anno Victor Papanek avrebbe compiuto 100 anni, invece le sue idee sono molto, ma molto più giovani.