Alla riga 76 di The Waste Land, T.S. Eliot cita un passo di Baudelaire: «You! hypocrite
lecteur! — mon semblable,
mon frère!» («Lettore ipocrita! — Mio simile, mio fratello!»). Nessuno più del traduttore fa propria questa chiamata di correità: il traduttore è un
interprete che conta sulla
complicità del lettore perché
passi sotto silenzio la sua pretesa di parlare per conto dell'autore. Il traduttore sta nascosto e il lettore non sa a chi
si sta affidando. Affidarsi a
Sergio Perosa per Shakespeare
è un'ottima scelta. Fu il suo
maestro, Carlo Izzo, che gli
trasmise la passione per Henry James e William Shakespeare del quale ha tradotto ogni
dramma. Recente è la sua versione del Giulietta e Romeo
(personaggi invertiti) nella
quale Perosa mantiene il maggior numero possibile di rime,
nonché la forma del sonetto.
Assai diversa, per esempio, è
la traduzione di Chiara Lagani
attualmente utilizzata al Piccolo Teatro di Milano da Mario Martone per la messa in
scena di Romeo e Giulietta (sino al 6 aprile). In questa riduzione teatrale la violenza
espressionistica del linguaggio degli adulti (le famiglie
Capuleti e Montecchi) si contrappone allo sdolcinato eloquio dei giovani innamorati.
Recente è anche il libro Il Veneto di Shakespeare, mappa
culturale che Perosa dedica al
culto del bardo nella Serenissima.
Oggi Perosa è di nuovo in libreria con una nuova traduzione, quella di Amleto (La
tragedia di Amleto. Principe
di Danimarca, Quodlibet).
Questa traduzione si presenta
come una «versione lunga»,
perché «l'Amleto che conosciamo è metà del dramma»,
assicura Perosa. Lo spettro
che compare sulle torridi Elsinora, capitale della Danimarca, è da interpretare come il
Passato che giunge a chiedere
giustizia nel Presente. Ma che
risposta può dare Amleto a
questo compito non umano?
Per Perosa il dramma non offre un'univoca chiave, perché
siamo di fronte a qualcosa che
«sfugge di continuo», a un copione aperto alle manipolazioni, che sa adattarsi a distorsioni e contraffazioni. Non
sappiamo se questo offrirsi all'interprete sia un segno di
grandezza o il problema di
Amleto, che è un intelligente
«falso scemo», un figlio di re
senza trono, un'ambiguità
permanente.
Eliot riteneva Amleto
un'opera dall'intreccio sovraccarico e «abborracciato», con
lati in eccesso anche nel linguaggio. Lo ribadisce Perosa,
che parla di «opera grumolosa», dramma che procede a
balzi, straborda con personaggi che pensiamo di conoscere
e, invece, si mostrano ogni
volta diversi da quelli che crediamo. Non sappiamo come
Shakespeare abbia composto
questa tragedia, ma in essa
sembra comprendere quanto
viene dopo, anche il dramma
della modernità, il dramma
dell'individuo di fronte alla
storia, tanto che per la anglista
Terry Eagleton Amleto precorre Hegel, Marx, Nietzsche,
Wittgenstein e Derrida.
In sostanza, come fece Peter
Brook nel 1995, ogni volta chiediamo ad Amleto di palesarsi. Ma lui sfugge. Alcuni di
noi restano legati al disvelamento romantico riscoperto
da Coleridge, ovvero alla figura del malinconico principe
amareggiato dal mondo, prototipo dell'individuo posto di
fronte a quella che, per Sartre,
era l'impossibilità di scegliere.
Amleto è prototipo dell'animo
sensibile, il contrario del
pragmatista Fortinbras, è l'uomo che vive tra i trucchi degli
altri, che si strazia per Ofelia
ma sa che Morte e Fortuna
giocano ai dadi e che l'uomo
onesto resta solo con se stesso. Poi ci sono infinite altre
letture. Per Erich Auerbach,
Amleto è padrone del proprio
destino. Per Harold Bloom è
l'inventore dell'umano, il prototipo di tutti gli individui. Per
Perosa, Shakespeare è da collocare tra Dante e Balzac: i suoi
personaggi sono a metà strada
tra quelli della Divina Commedia e quelli della Comédie Humaine.
Delle critiche sollevate da
Eliot su Amleto ci sarebbe, però, da discutere, poiché proprio la sua The Waste Land è,
analogamente, un'opera sovraccarica, eccessiva nel linguaggio, di spettri dal passato.
Inoltre, Eliot amava l'Inghilterra e nel 1930 lasciò gli Stati
Uniti per visitare il paesino di
East Coker, a sud di Stratfordupon-Avon, per cercare le radici del suo antenato Andrew
Eliot, che emigrò in Massachusetts nel XVII secolo. Scelse di farsi seppellire nella
chiesa di St Michael's Church
a East Coker. Visitandola si
può prendere nota della sua
lapide dove c'è scritto: «In my
beginning is my end. In my
end is my beginning», ripresa
dal motto che compare sullo
stendardo di Maria Stuart.
Questa frase, che compare anche nei suoi Four Quartets, è
qualcosa di eracliteo («Il principio e la fine sono la stessa
cosa») degna proprio dell'irresoluto Amleto.