Recensioni / Alberto Ravasio, “La vita sessuale di Guglielmo Sputacchiera”

Sono entusiasta, lo dico immediatamente. “La vita sessuale di Guglielmo Sputacchiera” - di cui cito qui il titolo esteso come ridondante forma di rispetto - è la prova che per scrivere un ottimo libro contemporaneo non c’è alcun bisogno di far passare sgrammaticature, frasi tanto asciutte quanto stitiche per la coltissima, quasi ermetica produzione di un’avanguardia all’ultimo grido.

La cultura non è un cilicio e non deve necessariamente esprimersi attraverso l’odioso, ipermodaiolo linguaggio botta-e-risposta da social. Questo è tutt’altro: un romanzo dalla struttura tradizionale, in cui il gusto - eccellente - per la parola che ha il suo autore lo colloca da un lato in un solco di tradizionalismo linguistico, dall’altro sul cavallo scalciante della novità. Giacché oggi si può essere nuovi rifacendosi a forme tradizionali, utilizzando correttamente ed elegantemente persino la punteggiatura!

Ravasio si rivela un parolista, un virtuoso della parola, un amante appassionato della parola che molto mi ha ricordato Landolfi e che io applaudo scorticandomi le mani. La parola è il vero gioiello scintillante di questo romanzo. La novità non sta nel fantastico, non sta nel comico. Ho già detto quale sia secondo me il profumo di macchina nuova di questo libro, e lo ripeto: la parola. Ma, e qui sta veramente il genio, i deliziosi preziosismi linguistici non sono la produzione onanistica dell’ego dello scrittore, sono il frutto e il seme dell’ironia che è l’aurea incastonatura delle parole.

L’ironia, che non cesserò mai di pensare come tratto distintivo dell’intelligenza, permette a Ravasio di parlare sia delle più imbarazzanti pruderie sia di argomenti molto delicati (come la transizione) senza essere mai una sola volta volgare o fuori luogo. Ravasio, probabilmente, è un degno erede della tanto agognata sprezzatura cinquecentesca, chapeau.

C’è di più, però, c’è di più. Quel geniaccio di Ravasio, che si rivolge al suo protagonista (che a me piace pensare sia un po’ anche l’alter ego letterario dell’autore) sempre e solo attraverso quell’ignominioso cognome, è capace di raggiungere vette di patetismo che suoi contemporanei ed ingiustificati Premi Strega neanche si sognano. La figura della madre e quella del padre, lo stesso Sputacchiera e anche il Coprofago sono personaggi tanto meschini quanto tragici: aprono bocca e parlano come se fossero intellettuali navigati - ho amato i dialoghi così anacronistici di tutto il libro - smuovendo le viscere e solleticando il dotto lacrimale, mannaggia a loro.

Ma non è ancora finita! In queste poche pagine quel genialaccio di Ravasio è in grado anche di mettere a frutto una pungente capacità di riflessione e critica sociale. Insomma, c’è di tutto: la binomica cittadina lombarda che tanto ricorda la terribile Eschberg di Robert Schneider; un novello Tiresia che deve cambiare sesso per conoscere e smuovere il proprio immobilismo; una lingua scintillante e ardita e naturale; un basso continuo di ironia che sostiene l’intero romanzo con il sorriso, salvo tacere nei momenti impregnati di pathos; una scena commovente allo specchio di riconoscimento di sé e consapevolezza che può fare davvero del bene; un adorabile anticlericalismo: “Dio mio! Dio mio, che non esisti!”.

Non so cos’altro aggiungere se non bravo, bravissimo Ravasio! Spero tu possa ottenere quanta più visibilità possibile perché te la meriti tutta.

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