Recensioni / Tradire il Messia Fede, Chiese e cristianesimo nel tempo della «fine»

La dedica del libro di Giancarlo Gaeta, In attesa del Regno. Il cristianesimo alla svolta dei tempi. Una riflessione (Quodlibet, Macerata 2022) a Goffredo Fofi dice di lui che «ha fede anche senza credere».
Di Jacob Taubes si legge che non è «un teologo di parte, ebreo o cristiano, cattolico o protestante, bensì (... ) un teologo laico, che non ha "una Chiesa alle spalle, né una baionetta, né uno stato che riscuote le tasse", e dunque può pensare i propri pensieri senz'essere condizionato da alcunché, "confrontandosi in tutta libertà e rigore con 'amici' e `nemici’”».
Anch'egli, dunque, «ha fede senza credere», e questo per lui significa, nella stagione pericolosa in cui vive, un insistente interrogarsi sulla questione messianica, che è la questione dell'apocalittica, cioè la questione della fine della storia, del suo essere divenuta nulla posta davanti a uno, il Messia, che tale la dichiara essere, mostrando improvvisamente che «la verità non è più qualcosa di oggettivo, ma è legata alla parola "io"».

Oltre la storia, nella storia
In questo modo la fondazione ultima non è quella che il pensiero trova in sé, nell'ordine necessario della propria razionalità che tutto lega e tutto in tutto incessantemente muta e risolve, ma risiede «in un Altro», in un al-di-là di sé che ciascuno (non il Suo pensiero) «vede o rimuove», scegliendo – mi si perdoni il lessico fichtiano — tra il proprio io empirico, soggetto alla violenza della necessità (l'io della storia accettata come intrascendibile), e il proprio io messianico (o assoluto), libero da essa, che nella storia agisce con atti liberi e liberanti, esenti da violenza alcuna.
Mi sembra infatti che per Jacob Taubes il senso della venuta del Messia significhi che egli ha posto fine alla storia, nel senso che ha posto termine alla resa alle volizioni e azioni tese al dominio dell'uno sull'altro che la determinavano tutta in tutti i suoi infiniti mutamenti. La storia è nulla, ripeto, e il Messia non vi ha parte alcuna. La sua azione in essa è azione di compassione, non di costruzione e garanzia di giusti equilibri.
Per questo, aggiungo, l'intellettuale austriaco sostiene che il Messia non può essere irretito in una figura che darebbe alla storia il suo giusto assetto e che quindi deve ancora venire, come propone Gershom Scholem, erede qui dell'Israele rabbinico che aspettando questo Messia si tiene fuori dalla storia, senza alcunché operare in essa.
Tuttavia — aggiunge — egli neppure può essere ridotto alla figura di colui che è venuto, ma si è poi reso assente (la morte, il corpo irreperibile: trafugato? risorto?) così che lo si debba attendere in un tempo nel quale l'azione devastatrice dei poteri mondani obbligherebbe i credenti, costituiti in Chiesa, a contenerli, dando loro, finché durano, in questo tempo che resta, una forma che renda vivibile la vita dei molti,1 ma corrompendo l'azione messianica stessa, la quale si fa così potere tra i poteri del mondo. Anzi, un potere che, pretendendo assolutezza, di fatto dà loro forza e giustificazione ulteriori, una volta che se ne siano emancipati: dalla teocrazia medievale si passa così alla monarchia assoluta e infine allo stato moderno totalitario.
La Chiesa come grande corruttrice, dunque, che, morendo, lascia un mondo consegnato alla barbarie.

Le Chiese e il loro ruolo nel mondo
Se questa mi sembra essere la tesi intorno alla quale Giancarlo Gaeta costruisce il libro, è opportuno, prima d'approfondirne alcuni punti, vedere in che modo egli la illustri e argomenti.
Il volume, dunque, si articola in tre grandi sezioni: una I teorica, da cui sono state attinte le riflessioni sopra illustrate; una II (la più ampia)), i cui materiali sono disposti in 3 sottoinsiemi che esplorano: alcune figure esemplari di cristiani del XX secolo, e di fatto tutti cattolici e, meno il primo, attivi con più forza nella stagione creativa del cattolicesimo novecentesco, cioè negli anni del Concilio e dell'immediato postconcilio; le figure degli ultimi papi; l'accelerata esplosione del cattolicesimo (ma in verità del cristianesimo tutto) a partire dai primi anni Settanta del secolo scorso; una III sezione, infine, che individua ciò che resta del cristianesimo dopo la morte della sua conformazione himillenaria (anche se si sa che «le religioni muoiono lentamente»), e questo ancora una volta attraverso l'individuazione di alcuni casi esemplari, che tracciano parabole tra loro diverse, molto diverse, caratterizzate anche da un diverso rapporto col passato.
Due ulteriori testi presenti nel volume dovrebbero essere letti a parte: la breve Conclusione, ovviamente, su cui tornerò alla fine di queste note, e il primo contributo, posto forse solo impropriamente ad apertura della I sezione del libro, perché la riflessione sul nesso parola e silenzio che vi si conduce mi sembra indichi e spieghi il solo metodo che per Giancarlo Gaeta consente d'accostarsi correttamente ai materiali raccolti nel libro, nella misura in cui esplorano fedeltà e tradimento del Messia che è venuto da parte del mondo e delle stesse Chiese che se ne pretendono eredi.
Infatti, se la parola del Messia è una parola ehe procede dal Silenzio, cioè dall'assolutamente Altro, e a esso conduce, essa non può essere colta e accolta che nel silenzio della mente, avrebbero detto gli antichi, nel silenzio dell'uomo nel suo io empirico, cioè in quella sospensione in noi, davanti agli sconcertanti accadimenti della vita, di ogni volizione e parola che è la condizione essenziale del suo discernimento nella grazia e terribilità della sua radicale estraneità al mondo.'
Sottolineo l'ambiguità di queste parole, che evitano di dare un nome all'Altro, di dargli con ciò una qualsiasi possibilità di rappresentazione e intelligenza — una reticenza che mi sembra intenzionale nel testo L'immagine del Dio creatore e salvatore quale ci è consegnata in particolare dalla tradizione cristiana sembra infatti, in questa tarda stagione della modernità, essere del tutto compromessa dalla cristologia e dalla teologia che le Chiese hanno sviluppato da molto presto a mera ginstificazìnne, sì dice, della loro posizione e del loro ruolo nel inondo — teocrazia che lo trattiene dalla barbarie.

Attesa come fede e percezione della fine
Questo — noto — è un problema ampianrente avvertito tra fine Ottocento e inizi Novecento, in ambienti multo diversi. Ne scriveva, ad esempio, Massimo Cacciati nelle dense pagine che dedicava in un suo saggio al giovane György Lukács. Per quest'ultimo, osservava, la scrittura possibile nel suo tempo è una scrittura «atea, in quanto capace solo dì rappresentare [una situazione], [ma] impotente a redimere, a valere come simbolo di redenzione. [Tuttavia], poiché sa questa sua condizione e provanostalgia di quel simbolo — essa miche crede», e la forma di questa fede è l'attesa.
«Se il Dio che ha abbandonato il mondo, il Dio che è morto fosse soltanto il vecchio Dio? (...) Allora — si legge — il nostro ateismo non esprimerebbe che la forma necessaria dell'attesa di [lui] nuovo Dio». In questo contesto la Scrittura dunque «"vuoterebbe" dall'interno la tragedia del destino, in quanto legata a quel rapporto immanenza-trascendenza imposto dal vecchio Dio, per far posto a colui che sta nascendo».' Il suo ateismo quindi «non crederebbe soltanto in quanto erede della certezza del simbolo, in quanto ha creduto, ria anche in positivo, nel segno di una prossima apocalisse», come per il giovane Lukács attestano massimamente gli eroi dì Dostoevskij.
Dovremo brevemente riprendere questo nodale problema. La citazione che precede serviva solo a testimoniare l'ampiezza di una riflessione che diverrà centrale in gran parte di quella generazione che uscirà ammutolita dalla cosiddetta Grande guerra, anche se valgono le parole di mi Walter Benjamin che riflette amaramente nel 1933 sugli esiti di quella stagione: «Una miseria del tutto nuova ha colpito gli uomini. E di questa miseria l'opprimente ricchezza d'idee che con la rivitalizz azione di astrologia e sapienza yoga, Christian science e chiromanzia, vegetarianismo e gnosi, scolastica e spiritismo si è diffusa tra — o meglio sopra — la gente è il rovescio. Perché qui non ha luogo un'autentica rivitalizzazione, ma una galvanizzazione», un'eccitazione che alla fine è culminata in quella provata davanti al messia ariano, figura dell'anticristo.
Benjaniin — aggiungo—nel 1936, anche lui in esilio, pubblicò in Svizzera un volumetto dal titolo Uomini tedeschi. Esso conteneva 26 lettere dì uomini tedeschi, appunto, che «abbracciano un secolo»,' cioè il periodo che va dal tempo «in cui la borghesia ricopriva le sue grandi posizioni» a quello in cui essa «conservava ancora quelle posizioni, ma non più lo spirito con il quale le aveva conquistate», e la sua epoca si avviava quindi ad avere una «triste fine» negli anni del secondo Reich, come aveva previsto un settantaseienne Goethe in una lettera a Zelter alla metà degli anni Venti dell'Ottocento, che viene lungamente citata.
«Ricchezza e velocità è ciò che il mondo ammira e verso cui ognuno tende. Strade ferrate, poste rapide, navi a vapore e tutto quanto può facilitare la comunicazione sono le cose di cui il mondo istruito va in cerca per sovraccaricarsi d'istruzione e quindi rimanere fermo nella mediocrità 1...) Restiamo fedeli il più possibile alle idee che ci hanno accompagnato fin qui — concludeva Goethe (e chi lo citava) noi, con forse pochi altri, saremo gli ultimi dì un'epoca che non tornerà tanto presto» — un'epoca felicemente creativa, ma presto tradita.
Insisto su questa percezione della fine, su questa attesa messianica, perché domina molti testi che Giancarlo Gaeta commenta. «Ora l'esperienza del termine ultimo è senza dubbio un'esperienza sconvolgente e, con la minaccia contingente legata all'annientamento atomico del mondo, è diventata anche universale. Ogni notizia della stampa sostiene che non c'è più molto tempo», diceva Taubes nel 1987.

Dossetti: tempo di rinnovamento
Giuseppe Dossetti, nell'intervento al Consiglio comunale bolognese del 3 novembre 1956, dedicato a discutere i fatti di Suez e d'Ungheria, osservava, nell'avvitarsi del secondo dopoguerra in urna sempre più pericolosa Guerra fredda: «La mia cultura è da un pezzo che è andata in pezzi. E andata in pezzi perché io, e credo un po'tutti noi, siamo figli di un certo tipo di cultura, che non è, notate bene, né la cultura borghese né quella marxista, ma che è a un tempo l'una e l'altra, nelle sue premesse e nei suoi sviluppi. E quindi, se siamo veramente dotati di volontà sincera e retta, non possiamo sottrarci (...) al travaglio profondo che gli eventi che oggi si stanno verificando impongono in maniera ancora più pressante alla nostra coscienza, cioè non possiamo sottrarci al sentire infrangersi, veramente infrangersi, gli strumenti culturali che hanno formato i nostri maestri».
I maestri cui alludeva non erano solo quelli del liberalismo o del socialismo, soggetti a chiudersi davanti alla storia in un cupo riconoscimento della sua necessità,' ma anche e soprattutto quelli della stessa più recente riflessione e dottrina sociale cattolica.
Per comprendere che cosa quest'ultimo rapido accenno significhi. mi sembra opportuno citare quanto, a Concilio chiuso;in un interessante testo del settembre del 1966, Appunti per un'antropologia critica o del profondo, Giuseppe Dossetti annotava a proposito dell'antropologia sulla quale si era fondata la Chiesa sino ad allora. Essa — scriveva — «nelle migliori delle ipotesi è un'antropologia metafisica, di una certa metafisica, e un'antropologia giuridica», che dava luogo a un'etica «animata nei punti più vitali da qualche radice che raggiunge profondità maggiori, ma [che] in moltissimi punti è un'eticità che si fossilizza nel diritto».
Da questa antropologia i documenti conciliati avevano a suo avviso salutarmente preso le distanze, consentendo con ciò un correlato ridimensionamento dell'«ecclesiologia metafisica» e di «tutto il discorso della "societas perfecta , o delle proposizioni di tipo puramente razionale che cercano di qualificare la Chiesa e le sue strutture e i suoi elementi in base a dati di pura ragione» — di quella «ecclesiologia giuridica», infine, che similmente aveva fuco ad allora dominato la dottrina e la pratica della Chiesa cattolica, determinando la radicale inadeguatezza della sua pratica evangelica lungo tutti i secoli della modernità.
Certo — notava — la «correzione» maturata nel magistero di Giovarmi XXIII e in aula conciliare non era indicativa di un processo compiuto e irreversibile, per il carattere acerbo degli sviluppi pre senti nei loro testi, tanto più che risultava suscettibile di ulteriori, sia pur diverse, infelici declinazioni, ad esempio nel prevalere di un approccio psicologico e sociologico, non meno inadeguato di quello metafisico-giuridico alla comprensione e proclamazione del mistero, ma costituiva un fatto di eccezionale rilievo, non solo per le Chiese, ma per il mondo tutto.

De Certeau: congedarsi dall'istituzione
Mi sono soffermato sulla figura di Giuseppe Dossetti perché le pagine a lui dedicate, nelle quali è affiancato e contrapposto a Michel De Certeau, permettono di individuare con chiarezza il bivio Innanzi al quale, secondo Giancarlo Gaeta, il miglior cattolicesimo oggi è posto, nella piena consapevolezza della crisi che lo investe: da una parte, la via che conduce, se sarà dato; a una riforma della Chiesa, con i suoi sacramenti e il suo credo una Chiesa mite e povera che non sia per sé, ma per il mondo dall'altra, quella che induce, nella fedeltà allo scarto che Gesù stesso ha consumato nei confronti della sinagoga, a riprodurre il suo singolarissimo passo, instauratore di un ordine messianico, nel congedo da un'istituzione, dalla sua liturgia e dalla sua dottrina, ormai divenute insipide all'uomo del nostro tempo perché tali lo sono a Gesù stesso.
Il gesuita francese sa non solo che il cristianesimo ha avuto nello spazio e nel tempo molteplici declinazioni, per cui nessuna tra loro può rivendicarne l'esclusiva rappresentanza, ma anche che esso non potrà mai ambire a ricomprendere in sé la totalità dell'esperienza religiosa dell'umanità, articolata in una pluralità feconda di intelligenze e pratiche.
Sa pure che nel presente il cristianesimo della Chiesa e la modernità, che a sua immagine si è costruita, attraversano unacrisi irreversibile e che «si può considerare chiuso il tempo in cui i cristiani potevano limitarsi a grida e proteste contro "l'istituzione"». Queste «ndignazioni "profetiche"» sono del tutto fuori tempo — scrive —, perché presuppongono che ci si possa «attendere dall'istituzione o dai suoi capi una risposta ai nostri problemi. Prendersela con loro, con Roma, con il papa, con l'infallibilità, con i vescovi — che ne so — è un'occupazione divenuta risibile. Tra teologi e uomini del papa, il combattimento tra Grazi e Curiazi può ancora far parte dcl teatro ecclesiastico, non riguarda più la vita dei cristiani. Il problema è più serio: come si praticherà ed esprimerà un'esperienza comunitaria della fede? Come si situerà in rapporto a quell'insieme di segni e testi chele prospettano una singolarità cristiana? Insomma, cosa significa essere cristiano nella nostra società?».
Ora, queste domande a mio avviso conoscono risposte potenzialmente diverse nelle pubblicazioni di De Certeau tra fine degli anni Sessanta e metà degli anni Settanta—anni dopo i quali, nell'ultimo decennio della sua vita improvvisamente spezzata, serberà un prevalente silenzio a loro riguardo, o vi arrecherà risposte solo indirette, mantenendo fmo alla fine fedeltà ai voti fatti.

Il rischio del sacerdote-mediatore
Da una parte, ad esempio, in Cristianesimo in frantumi, un intervento tenuto nel maggio del 1973 e pubblicato nel 1974, si legge che l'accesa discussione sul clero allora diffusa altro non era che «un primo modo, ancora metaforico, di mettere in discussione la possibilità per la Chiesa di esercitare iui molo di mediazione tra l'esperienza umana e l'assoluto. C'è bisogno di un intermediario sociale tra l'uomo e Dio?» — si chiedeva.
«In un modo o nell'altro — chiosava — la funzione sacerdotale rappresenta questa mediazione, la suppone necessaria. Ma con questa funzione nella Chiesa ne va della funzione della Chiesa stessa». Ormai, «l'evoluzione in corso — proseguiva la taglia orizzontalmente: da una parte orienta l'istituzione verso l'amministrazione tecnica, privilegia i gestori, i sociologi, gli economisti o gli uomini della finanza; dall'altra induce i credenti a esiliarsi da questo corpo (in fondo non mal amministrato) e a cercare un modo effettivo d'espressione della propria fede altrove, in piccole comunità o nella forma di quegli impegni arrischiati e molteplici che richiedono le carenze del sistema complessivo», scientifico-tecnologico, che già dava forma e ordine alla società tutta.
In questa prospettiva, concludeva (corsivo mio): «Quel che è messo in discussione non è Dio, ima la Chiesa (...) Nella storia umana Dio ha preceduto la Chiesa e sembra doverle sopravvivere».
In Luoghi di transito, un saggio pubblicato poco tempo prima, nel febbraio del 1973, De Certeau tuttavia aveva scritto, forse con maggiore esattezza: «Il nuovo uso sociale dei segni religiosi ritrova, ma a un diverso livello, la loro tradizionale funzione di portatori di questioni che concernono la vita, la morte, la salvezza, le relazioni con l'invisibile e gli antenati, la localizzazione del "più forte" nel gioco e sotto le maschere delle gerarchizzazioni sociali, il senso ultimo delle cose. Ma questa ripresa non è continuità [corsivo mio]. Si separa dal passato attraverso un fondamentale mutamento di livello nelle situazioni. Se le questioni restano le stesse, la risposta che dava loro quel linguaggio religioso è divenuta non credibile. Se il rapporto all'altro resta ieri come oggi essenziale alla costituzione del soggetto individuale o collettivo, questo altro non è più Dio [corsivo mio]. Dunque, quando i linguaggi religiosi ricompaiono nella nostra società, questo avviene senza quella credenza che li parlava».
La tesi qui chiaramente enunciata è ripresa, vale la pena oli sottolineare, in alcune decisive righe del saggio posto nel 1982 a conclusione di La falle mystique, XVi-XVII siècle. Dopo aver scritto di Hadewijch di Anversa che è viandante tra i viandanti che camminano «alla ricerca di quanto è loro accaduto», testimone di coloro che «si affrettano (...) su tuta strada oscura, / non tracciata, non segnata, tutta interiore», aggiunge: «Di questo spirito (...) sedotto da un'origine o fine imprendibile clúamato Dio, nella cultura contemporanea sembra sussistere soprattutto il movimento del partire incessante, come se l'esperienza conservasse solo la forma j non ìl contenuto mistico tradizionale».
«11 viaggiatore, disancorato dall'"origine" di cui parlava Hadewijch, non ha più fondamento né fine. Abbandonato a uri desiderio senza norme, è il bateau ivre. Da allora questo desiderio non può più parlare a qualcuno [corsivo mio]», sembra divenuto infans, privo di voce, più solitario e sperduto di una volta, o meno protetto e più radicale, sempre in cerca di un corpo o di un luogo poetico [corsivo mio]» in cui provvisoriamente sostare — di parole, dunque, che alludono ad altro da quanto significano, indizio di una mancanza che non può che indurre ad andare oltre, a camminare ancora, senza fine alcuna, ma anche, forse, oli «Luna vitalità segreta e amai spenta» che a questo induce.

Quale forma per la comunità dei credenti?
Qual è allora il rapporto tra gli eredi di Hadewijch, che danno nome all'Altro, e chi questo Altro non può non cercare, senza tuttavia mai poter dargli Lm nome, senza nemmeno pensare di poter ricevere da lui alcun nome? Qual è la forma delle comunità che raccolgono gli uni e gli altri, se delle comunità, come sembra essere necessario, permangono?
A proposito di queste domande vorrei citare ancora un testo, alcune ultime righe, tratte da uno scritto importante del 1969, Lo straniero, che riguarda la Chiesa: «Bisogna essere realisti — vi scriveva De Certeau —. La Chiesa è una società. Ora, una società si definisce grazie a ciò che esclude. Si costituisce differenziandosi. Formare un gruppo significa creare degli estranei. C'è qui urna struttura bipolare essenziale per ogni società: stabilisce un "al di fuori" perché esista un "tra di noi"; delle frontiere, perché si disegni un paese interno; degli "altri", perché prenda corpo un "noi".
Questa legge è anche un principio di eliminazione e intolleranza. Porta a dominare in nome di una verità definita dal gruppo. Per difendersi dallo straniero lo si assorbe o lo si isola. Conquistar y pacificar due termini equivalenti per i conquistadores spagnoli di una volta. Non facciamo anche noi lo stesso, non fosse che nella variante dì "comprendere" gli altri e, ad esempio in etnologia, di identificarli a quel che sappiamo di loro e (pensiamo) meglio dì loro?
Poiché è una società, benché di un tipo speciale, la Chiesa è sempre tentata di contraddire quel che afferma, di difendersi, di obbedire a quella legge che esclude o sopprime gli stranieri, d'identificare la verità in quel che ne dice, di contare i "buoni" nei suoi membri visibili, di ricondurre Dio a non essere che la giustificazione e l'"idolo" di un gruppo dato. La storia mostra che questa tentazione è reale.19 Questo pone un problema grave: una società che testimoni Dio e che non si accontenti di fare di Dio il proprio possesso è possibile?
Mi sembra che l'esperienza cristiana rifiuti profondamente questa riduzione e lo evidenzi con un movimento di trascendimento incessante. Si potrebbe dire che la Chiesa è una setta che non accetta mai d'esserlo. È costantemente tirata fuori da sé da quegli "stranieri" che le strappano ì suoi beni, che sorprendono sempre le elaborazioni e le istituzioni faticosamente acquisite e nei quali la fede vivente riconosce a poco a poco il Ladro — colui che viene».
Non intendo qui prospettare interpretazione alcuna del percorso di De Certeau né in alcuni modo discutere questi pensieri. Li richiamo perché essi mi sembra stiano al fondo del lavoro di Giancarlo Gaeta, dell'attenzione che lo ha prodotto e di cui è stato testimone; dell'ascolto delle molte voci che ha raccolto, del cordiale rispetto che a ciascuna ha prestato — anche a quella di una possibile salutare efficacia per la Chiesa cattolica e al di là di essa —, degli atti e delle parole di papa Francesco.
Avanzo solo un appunto. L'ultima parola del libro è giudizio, lì dove, confesso, avrei preferito fosse misericordia. Il giudizio, necessario, che su tutto e tutti sarà pronunciato, è termine medio: sta tra la misericordia dell'in principio e la misericordia del Regno. Segna il duro cammino della conversione, del gemito che ne consegue e precede l'accoglienza del Messia (postquam, conversus ingemueris — scrive il profeta), del grido di dolore ed esultanza della partoriente, di Rachele che morendo genera dall'alto il figlio del dolore e della destra.
Sul giudizio pesano le parole di Gesù: «Non giudicate ... Chi è senza peccato scagli la prima pietra». Dio è philopsychos, ama il soffio vitale, è il vivente Dio dei viventi — e questo lo avverto sempre come a un tempo consolante e terribile e compiutamente umano