Recensioni / Noi animali umani. Contraddizioni aperte sulla vertigine del possibile

Qualcosa cambia, si sottrae alla nostra presa, non si lascia più interpretare con le categorie consuete, muta figura scontornando di continuo il suo profilo. È allora che ci rivolgiamo alla teoria. Contrariamente a ciò che predica il senso comune, la teoria non è la proiezione di una griglia di forme stabili sulla mutevolezza dei fenomeni, ma piuttosto un passo indietro, un risalire al punto in cui i fenomeni stessi si trovano al cospetto della loro costitutiva necessità di assumere una forma. Una teoria che non voglia essere una semplice svalutazione del mondo fenomenico (sempre bisognoso per questo di essere soccorso dai buoni uffici di un mondo «più vero», teologico, metafisico o semplicemente logico), deve pensarsi come il tentativo paradossale di cogliere nel mutamento il tratto invariante e necessario che struttura la possibilità stessa di fare esperienza dei fenomeni, e così facendo, secondo il detto attribuito a Platone e caro a Walter Benjamin, di salvarli, individuandovi non tanto il divenire di qualcosa di già dato, bensì al contrario ciò che di continuo scaturisce dal divenire e dal trapassare. Un compito, questo, cui non attendono soltanto i teorici di professione, e che viene espletato da chiunque, individuo o gruppo, nella sua quotidianità si trovi di fronte - come ha scritto Paolo Virno in un libro recente, Motto di spirito e azione innovativa (Bollati Boringhieri) - alla crisi di una «forma di vita»: quando una norma cessa di valere in quanto possono darsene applicazioni troppo dissimili tra loro, si risale indietro alla più generale attitudine che caratterizza la natura umana in quanto tale, e cioè appunto la necessità di imbrigliare sempre e in ogni caso la vita in una forma - non sempre la stessa, questo è il punto.

Illustrazione di una ipotesi
A qualsiasi trasformazione di un assetto vigente presiede dunque una teoria, sia essa consapevole o, anche se può sembrare una contraddizione, irriflessa, automatica, spontanea: se per teoria si intende non una mera descrizione ma una messa in mora e una riorganizzazione del reale a partire dal possibile. Poiché però il possibile, il possibile umano quanto meno, è indeterminato ma non illimitato, è conveniente chiedersi quali sono le sue contraintes, le sue colonne d'Ercole, i confini a partire dai quali può operare le sue aperture, molteplici ma non infinite.
È a questa domanda che si applica il libro di Massimo De Carolis, Il paradosso antropologico. Nicchie, micromondi e dissociazione psichica (Quodlibet, pp. 180, euro 16,00), proseguendo la riflessione già iniziata in un volume del 2004, La vita nell'epoca della sua riproducibilità tecnica (Bollati Boringhieri), nonché un percorso di ricerca che l'autore condivide con altri studiosi - tra cui Paolo Virno - raccolti intorno alla rivista intitolata, appunto, «Forme di vita».
Il terreno di operazioni in cui De Carolis si muove è quello che Michel Foucault chiamava «ontologia del presente», e cioè una zona di intersezione paradossale tra due piani logicamente distinti: da una parte l'isolamento di qualcosa che è sempre, una dimensione invariante che determina l'essere dell'uomo in quanto è inscritta nella sua costituzione biologica; dall'altra l'emergenza di una sua manifestazione che diventa visibile solo adesso, a partire da quanto sta accadendo ora, che per De Carolis coincide con ciò che comunemente si chiama il passaggio dal moderno al postmoderno. L'ipotesi è dunque che per qualcosa di strutturale e connaturato alla condizione umana - il suo paradosso, come vedremo subito - la situazione presente costituisca una sorta di «pienezza dei tempi» che le conferisce una maturità postuma e una pertinenza esplicativa mai raggiunte prima.

Dal mondo all'ambiente
In estrema sintesi: connotato paradossale della specie umana è per De Carolis il doppio vincolo che la costringe, in mancanza di un ambiente prestabilito e preformato dagli istinti come quello di cui dispongono altre specie, ad aprirsi alla radicale contingenza di un mondo in cui tutto può diventare significativo, e insieme di delimitare quella contingenza attraverso l'istituzione di un reticolo di simboli che la circoscrivano. Non perché l'uomo viva, come voleva l'antropologia filosofica novecentesca (Gehlen, Plessner, Heidegger), al di là della natura: il suo debole corredo istintuale, la sua congenita incapacità a distinguere tra dentro e fuori, tra segnale (ciò che è pertinente alla sua conservazione) e rumore (ciò che non lo è), sono senz'altro il risultato di un complesso percorso evolutivo tutt'altro che preternaturale.
Resta il fatto, però, che a differenza delle altre specie quella umana trasforma il mondo in un ambiente in cui vivere, e anzi in una catena ininterrotta di ambienti sempre diversi, non attraverso gli istinti ma attraverso i simboli - Roger Caillois diceva: per interposta immagine. Come a dire che noi umani non possiamo vivere se non cambiando, trasformando insieme la realtà esterna e noi stessi, e dunque includendo all'interno del nostro spazio di azione proprio quell'apertura alla contingenza illimitata che ci proponiamo di esorcizzare.
Non si tratta dunque della mera opposizione tra una coppia di contrari: dentro e fuori, apertura e protezione, ordine e caos, cultura e wilderness, ma dell'interazione - paradossale, appunto - tra due correlativi, e cioè tra due termini che si coimplicano in modo che l'uno non può stare senza l'altro. La costruzione di un ordine simbolico è un atto di selezione e di combinazione che presuppone la possibilità di trascegliere, almeno in parte arbitrariamente, tra la congerie di stimoli senza necessità che costituiscono il magma informe da cui ci si vuole difendere, e insieme di cui ci si vuole appropriare; così come è solo la pressione dell'acqua, per riprendere una straordinaria immagine di Furio Jesi, a determinare la forma della macchia di inchiostro che la seppia diffonde intorno a sé per proteggersi dai predatori. Questo è il proprio biologico dell'animale uomo, la radice della sua adattabilità (versatilità, duttilità, capacità di cambiare le regole, in una parola: creatività), la sua spinta contraddittoria a chiudersi in una nicchia che gli faccia da ambiente artificiale, e a cambiarla di continuo, con più o meno successo, dalla minima innovazione alla catastrofe di un intero orizzonte culturale.
Dato dunque questo paradosso primario - necessità di negare la contingenza attraverso un continuo prelievo dalle virtualità della contingenza medesima - il problema diventa quello di capire come le diverse epoche hanno proceduto a neutralizzarlo, nel doppio senso di negarlo in quanto generatore di angoscia, e di metterlo al lavoro per sfruttarne le potenzialità creative. De Carolis individua tre strategie. Quella del mondo arcaico, premoderno, affidata al dispositivo del rituale, che nel suo sforzo di presentarsi come momento eccezionale di sospensione della normalità, e insieme come paradigma da cui traggono legittimità le norme della vita quotidiana, include performativamente il caos nell'ordine mimandone le fattezze, i temi, i tempi e le movenze. Quella della modernità, che consiste essenzialmente nella sua rimozione, in una «scissione orizzontale», nella sottomissione (pagata in moneta di disagio della civiltà e di insubordinazione politica, di tumulto e di nevrosi) delle pulsioni all'Io e delle moltitudini allo stato nazionale. E quella attuale, postmoderna, caratterizzata, più che da una cifra unitaria, da un pulviscolo di manifestazioni ambivalenti, in disponibilità, ancora tutte da connettere in una configurazione d'insieme. Ad accomunarle, una famiglia di dispositivi insieme psichici e sociali il cui tratto pertinente De Carolis individua in un regime di scissioni non più orizzontali ma verticali: dallo stato nazione alle «comunità immaginate» delle diverse identità diasporiche; dall'imperativo categorico del principio di realtà alla sempre maggiore indistinzione postmoderna tra la sfera dei fatti e quella delle finzioni; dal binomio rimozione/nevrosi alle nuove patologie incentrate invece su un processo di dissociazione interno all'Io, analogo al diniego del feticista che insieme crede e non crede all'assenza del fallo della madre, o alla «dissociazione primaria» dell'infante che non ha ancora accesso alla dimensione simbolica e non può distinguere tra eventi esterni e stati psichici. Tutti esempi questi, di una dissociazione intesa come fuga, processo di comunicazione non riuscito, che sembrerebbero sposare le interpretazioni più pessimiste della contemporaneità, se De Carolis non vi contrapponesse, a partire dall'intervento degli stessi meccanismi, anche casi di dissociazione riuscita, felice, creativa, il cui esempio è fornito per esempio dalla sfera del gioco, infantile e non solo, dove è possibile cambiare le regole all'interno dell'atto stesso di apprenderle, e dove per ciò stesso si annida la possibilità del cambiamento, della defezione, della diserzione e dell'esodo.
Attraverso il filtro del paradosso antropologico, si dispiega così davanti ai nostri occhi una mappa dell'attualità che mantiene intatta, di contro alle molte descrizioni unilateralmente euforiche o disforiche della condizione postmoderna, la sua promessa di futuro, il suo essere ancora in potenza, in attesa di una decisione che ne liberi il potenziale emancipatorio, o ne confermi invece la tendenza, insita in ogni neutralizzazione del possibile, all'assoggettamento. Una partita ancora aperta, i cui esiti possono essere da una parte un'antropologia pluralista (una democrazia creativa, scrive De Carolis riprendendo una formula di Dewey) che sappia fare a meno della reductio ad unum con cui la modernità, da Hobbes a Schmitt, ha neutralizzato nella sovranità dell'Io, dello stato e del politico la sfera concreta e irriducibile delle differenze; dall'altra il totale asservimento delle nicchie, di volta in volta precariamente elaborate dai soggetti individuali e collettivi, alle logiche sistemiche e impersonali con cui gli apparati economici, burocratici e tecnoscientifici tentano di elidere la necessità di una cornice esterna, umana e per questo suscettibile di decisione, che le coordini, le indirizzi e se ne serva invece di sottomettervisi (facendo finta per di più, grazie al dispositivo della dissociazione, di volerlo e di essere libera per questo, come prescriveva Luhmann e lamentava Lyotard).

Una diversa idea di modernità
Proprio perché si apre sulla vertigine del possibile, il paradosso antropologico ci ricorda che, se non tutto, molto è ancora (sempre) possibile. Niente di meno, ma anche niente di più. Ovvero, il più resta ancora da fare, e cioè capire come, e soprattutto chi, quale soggetto. De Carolis, lo si è visto, non è tenero col moderno, il cui tratto principale ravvisa in un'istanza di subordinazione all'autorità, nella fine delle illusioni, in un'uscita dallo stato di minorità che coincide con l'accettazione dell'obbedienza necessaria (eventualmente lenita dal rimpianto, dalla nevrosi e dalla conflittualità endemica ma sconfitta in partenza), pena la ricaduta nel caos, nell'indistinto e nello stato di natura. Non a caso gli autori con cui lo esemplifica sono Hobbes e Schmitt. Il moderno di De Carolis è lo stesso di Foucault, dove la genesi della soggettività coincide grosso modo con i dispositivi di assoggettamento.
Questo è giusto ma forse non è del tutto vero, e lascia comunque inevasa la domanda cui la modernità aveva trovato una contraddittoria (e paradossale, certo) risposta nell'istanza della critica, del rifiuto, dell'introduzione, diceva Adorno, della negatività nell'essere. Cos'altro è stata, per esempio, la sua estetica? Moderni sono Kant ed Hegel, ma anche Kleist e Hoffmann, moderno è il tentativo di unificare il soggetto ma anche la disponibilità a infrangerlo per rompere insieme ad esso il potere di un'oggettività sentita a giusto titolo come estranea, pericolosa e nemica. Una risposta oggi irriproducibile, certo ma di cui non abbiamo ancora trovato il sostituto in termini di prassi emancipatoria. È a questa prova che dobbiamo convocare il paradosso antropologico, ed è sulla base di questo che potremo giudicare la sua capacità di dimostrarsi, come si diceva all'inizio, non una descrizione ma appunto una teoria, e cioè un discorso sull'essere che impegni, oltre al nostro intelletto, anche la nostra sfera del volere, non volere, o comunque volere diversamente.