Recensioni / La casa merce della società

Mi capita di leggere un interessante libro di storia dell'architettura italiana del '900 osservata da una prospettiva davvero insolita mentre laboriosamente ripercorro per ragioni tecniche di editing un mio vecchio saggio biografico su una figura di protagonista minore (perché meno visibile) della medesima vicenda. E così diventa inevitabile comparare i due lavori. In entrambi i casi, pur attingendo a fonti analoghe e usando un filtro critico abbastanza sistematico e trasparente, le conclusioni del testo descrivono la medesima realtà da prospettive diverse.

Nello specifico la lettura del mio testo cercava nella biografia personale di un architetto italiano della generazione modernista una continuità culturale-critica tra il periodo fascista tra le due guerre mondiali e il dopoguerra, la ricostruzione e il boom economico. La lettura dell'altro Autore, con cui mi capita quasi per caso di confrontarmi notando analogie speculari, parte invece da precisi prodotti di architettura: la materiale costruzione edilizia, quella della città e del territorio italiano che abbiamo abitato e ancora abitiamo. Abitare evoca la parola casa ed è proprio una diversissima, per certi versi opposta, idea di casa che emerge dal confronto tra le due letture. É davvero il caso di approfondire meglio.

L'idea di casa che emerge dalla mia lettura, partendo dai primissimi anni '30 di esordio dei giovani modernisti italiani di aspirazioni europee. Questi, impegnati nei Concorsi di Piano Regolatore che all'epoca sono la vetrina dell'architettura urbana di ricerca, appartengono a quella della tradizione internazionale riformista di ascendenza più o meno Bauhaus, viennese, Existenzminimum, o se vogliamo, corbusieriana in senso lato. Inserita organicamente nel tessuto urbano vasto e del quartiere-vicinato, è il contenitore di gruppi di individui sociologicamente abbastanza individuati, che sviluppano prevedibilmente quel tipo di relazioni poi sistematizzate nella Carta di Atene. Si tratta, in sostanza, di un contenitore sostituibile se non quasi usa e getta.

Lo slogan secondo cui alla forma segue la funzione, nel modernismo «dal cucchiaio alla città», qui pare suggerire che al mutare del bisogno si cambia casa senza particolari attriti, ovvero senza neppure quello economico perché tendenzialmente nel modo modernista perfetto quella casa non è una merce non si lega a redditi o rendite, è una sorta di bene di consumo disponibile. Il Piano Regolatore organizza l'efficienza sul territorio di questa infinità di contenitori di individui e gruppi, e l'achitettura che ne deriva, egualitariamente, ne stabilisce i criteri estetico-prestazionali. Però, di fatto, nonostante quei concetti sembrino occupare percentuali vicine al totale nella formazione universitaria dei professionisti, se ci guardiamo attorno dopo quasi un secolo ne vediamo pochissime tracce. Città quartieri architetture sono invece proprio connotati dalla casa-merce così trascurata dalla teoria.

Da qui l'enorme importanza della prospettiva di lettura dell'altro saggio che citavo all'inizio. Il quale, pur usando riferimenti e fonti del tutto analoghe, non parte dalla cultura e dalle intenzioni della generazione di progettisti sedicenti modernisti. Per quanto sia difficile trovarne qualcuno che prima o poi non si sia dichiarato tale ad ognuno è capitato di doversi confrontare con la realtà del mercato o soccombere.

E non si tratta del mercato domanda offerta dell'ideale economico liberale esteso ai consumi quotidiani di individui e famiglie o addirittura all'immaginario, ma di una versione forse meno paranoica ma abbastanza coerente dell'ideologia dentro cui viviamo almeno dal dopoguerra in poi. Ovvero l’ideologia della casa-merce dentro cui sta la famiglia nucleare pilastro della società aspirante a salire tutti i possibili gradini nella scala della proprietà.

Né più né meno di quanto prevedono quasi tutte le leggi, piani, programmi, circolari, inclusi (soprattutto) quelli delle case «economiche e popolari». Per fare solo un esempio si può citare il decantato INA-Casa di Fanfani che, in base a una precisa idea di società urbano-industriale-liberale e cattolica (anche qui in senso lato) ci costruiva attorno un’ideologica città le cui forme avevano esattamente la funzione di plasmare tutto a propria misura.

L'Autore del saggio su cui si basano queste note provava semplicemente a paragonare pezzi di città «ideologico-popolari» ad altri pezzi di città «borghesi di mercato» scoprendo con poca sorpresa che alla fin fine erano identici. Perché progettati dagli stessi architetti, con la stessa formazione, ma per una committenza che rifiutava radicalmente (e ideologicamente) la casa usa e getta. Forse bisognerebbe spiegare almeno quello a chi oggi davanti alla ennesima crisi delle abitazioni urbane e delle case in affitto parla parecchio alla leggera di casa servizio, di uscire dalla logica immobiliarista della merce e soprattutto di «tornare a investire nelle case popolari». Perché sinora il tutto ha prodotto esattamente questa situazione. E occorrerebbe prima cambiarne i presupposti.