Recensioni / Stuparich e l'Istria, quel mondo perduto

Sono tra le pagine più belle per intensità emotiva e grazia stilistica della narrativa di stampo autobiografico e memorialistico della nostra letteratura novecentesca i Ricordi istriani di Giani Stuparich, che ora rivedono la luce, in una nuova edizione curata da Giuseppe Sandrini, per le edizioni Quodlibet Stuparich - che era nato a Trieste nel 1891 da Marco, uomo d'affari di Lussinpiccolo (oggi Mali Losinj, in territorio croato), e da Gisella Gentili, triestina di origine ebraica - rievoca nei brevi testi che compongono l'opera principalmente episodi della propria infanzia, basandosi sui ricordi di bambino. Accanto al piccolo Giani, fanno capolino i genitori, zii e zie, nonni, una famiglia ricca di storia e di memoria. A campeggiare nel libro sono in particolare i membri del ramo paterno, che annoverava preti e armatori, ma anche uno zio baritono che, quando nel 1878 si profilava l'occupazione austriaca della Bosnia Erzegovina, non volle fare il soldato per l'impero austro-ungarico e scappò in Italia, dove ebbe una splendida carriera artistica.
«Ognuno è curioso di conoscere le radici dell'albero da cui proviene», scrive Stuparich all'inizio di uno dei racconti. Da Trieste, Giani bambino si reca spesso nei luoghi d'origine del padre, in occasione delle festività principali (quando gustare i cibi di rito: il minestrone di verze, le "frìtole", le frittelle natalizie, e le "pinze'; i panini dolci pasquali), ma soprattutto durante le vacanze estive. Basta una carta geografica della penisola istriana - «un triangolo circondato da due lati dal mare, la linea merlettata delle coste e le catene dei monti, i piccoli solchi dei pochi fiumi, i cerchietti delle cittadine costiere e montane, un seminio di puntini tra un rado intrico di strade e tra pochi tratti di strada ferrata - a innescare la rievocazione memoriale. Come il primo viaggio a Cherso, l'isola del Quarnero separata dall'Istria per mezzo del canale di Farasina: «Che cosa sia il primo viaggio in piroscafo per un ragazzo di sei anni, ognuno può immaginarlo». Un'aura mitica e favolosa circonda le terre istriane, luoghi fantastici di magia e avventura, nonché l'isola di Lussino, dove era nato il padre: «L'isola paterna a forza di ascoltare e di connettere cenni e racconti che se ne facevano a casa, era diventata il regno vivo delle mie scorrerie fantastiche». Così l'animo bambino di Stuparich cercava «il croncretarsi di una promessa. La promessa d'una scoperta, d'una rivelazione attesa: ritrovare nella realtà quell'idea che m'ero formato della mia terra e che di giorno in giorno mi si andava arricchendo di particolari». Quattro o cinque alberelli d'acacia possono diventare un bosco in cui mirare ai "nemici; cioè ibambini di un altro paese chevengono allo Scoglio d'Isola a fare il bagno, con una fionda caricata a fagioli e ghiande. Uno dei tratti più felici della scrittura di Stuparich è la sensualità d escrittiva, vale a dire l'attenzione a colori («Mare e campagna, campi che mescolano il verde all'azzurro del mare, insenature turchine che penetrano nel verde della campagna: questa è l'Istria»), odori («caldo profumo di sole, di maestrale, di salsedine»), sapori (come quello del frutto «che dall'albero vivo passa direttamente al palato»), trasmessi al lettore che si trova trasportato in quel mondo con grande immediatezza.
Ricordi istriani uscì nel gennaio del 1961 e si è tentati di considerarlo il testamento spirituale di Stuparich. Non solo per il fatto che l'autore morì quel lo stesso anno poco dopo la pubblicazione del libro, ma anche perché in qualche misura egli chiudeva un cerchio, riandando alle memorie della propria infanzia con la consapevolezza, non solo personale ma diremmo storica, di quanto nel frattempo era avvenuto: due guerre mondiali e, al termine della seconda, con il trattato di pace del 1947, l'annessione della maggior parte dell'Istria alla Iugoslavia, con il conseguente massiccio esodo di italiani. Le ombre fosche della Storia determinano l'eclissi di una felicità che appare ormai definitivamente negata, per sé e per gli altri. La «tristezza profonda di tanti (...) fatti dolorosi e tragici che erano venuti dopo» rende ancora più struggente la nostalgia del paradiso perduto. Passeggiando per Trieste al tramonto, allo scrittore capita di imbattersiin persone dallo sguardo proteso in lontananza: «Vado la sera lungo le rive e in cima ai moli. Seduti su qualche panchina o su qualche colonna d'attracco, scorgo spesso dei vecchi e delle donne che guardano assorti dinanzi a sé. Le donne hanno per lo più in mano un lavoro a maglia, e con gli occhi lontani, accompagnano i loro pensieri al ritmo meccanico degli aghi. Non ci vuol molto a capire che sono dei profughi istriani». Gli italiani subivano la vendetta degli slavi, prima a loro volta perseguitati dal fascismo: questi i frutti avvelenati dei nazionalismi di ogni colore.