Recensioni / Grandi italianisti nati tra 1920 e 1940

Ecco un volume tutt'altro che di routine*. Si coglieranno subito la costruzione e l'angolazione originale. E, si spera, benvenuta. Il libro è costruito coralmente: cinquantadue ritratti, né troppo brevi né, soprattutto, troppo lunghi, di personalità critiche che, nate tra 1920 e 1940, hanno diffuso e anche imposto la loro attiva, a volte attivissima presenza in Italia, e anche in Svizzera, «tra lingua e letteratura, filologia e strutturalismo, teoria e comparatistica, psicanalisi e sociologia, narratologia e semiologia ed estetica della ricezione». Nessun effetto di schiacciamento o di affollamento. Nessuna ripetitività. Da Cesare Cases a Romano Luperini è un'intera, complessa storia degli studi letterari quella che si squaderna, varissima e dunque sempre o quasi sempre, capitolo dopo capitolo, accattivante, sotto i nostri occhi. E il termine cultura non basta, se spesso si impongono passione, novità metodologica, astuzie dell'intelligenza, stile degli effigiati.
Dico qualcosa, intanto, sui ritrattisti. Spigolare da pagina a pagina consente l'incontro con nomi anche ben noti, da Residori, per dire, a Scaffai, e con altri che lo sono meno ma tutti impegnati a prendere le misure del proprio oggetto con concretezza e chiarezza - certo, pure al riguardo in dosi non eguali -: ciascuno a dire molto, stando quasi sempre all'essenziale.
E i personaggi? Impressionante soprattutto il triennio d'avvio, quello dei nati tra 1920 e 1923. Basterebbe, tanto per cominciare, l'elenco: Cesare Cases, Gianfranco Folena, D'Arco Silvio Avalle, Domenico De Robertis, Dante Isella, Adelia Noferi, Sergio Romagnoli, Giovanni Pozzi, Sebastiano Timpanaro. Non tutti i contributi sono all'altezza dell'oggetto. Ma è l'insieme che, con alcuni e non pochi acuti, va considerato eccellente. E dunque è raccomandabile, magari dopo un primo assaggio qua e là, come ho fatto io, antologico, la lettura per intero.
Fra i do di petto - i miei scarni cenni finiranno però per tradire la complessità e ricchezza di molti contributi - vedi per esempio il robusto intervento di Luca D'Onghia su Folena. Con un incipit che già dice molto: «La radice quadrata della sua attitudine critica può essere colta anche negli scritti apparentemente più tecnici e meno letterari»; e «Succede così che [...] l'esame tecnicamente agguerrito dei testi si accompagni sempre a un'intensa percezione della loro storicità e delle concrete occasioni della loro genesi e della loro circolazione». O vedi il terso viaggio di Scaffai dentro il lavoro e anzi i lavori sempre `in corso', in un fieri appassionato e appassionante, di Dante Isella (anche se la iselliana citazione conclusiva appare, ahi, tristemente utopica, nel suo taglio di speranza umanistica). E di tutto rispetto il De Cristofaro su padre Pozzi, «inquieto osservatore delle ideologie molteplici che soggiacciono alle forme»: con una sua curiosità e mobilità perfino inattesa, tra amato Seicento e presente letterario e figurativo, oltre che poetico.
Una sorpresa spiazzante, almeno per me, ma non privo di insegnamenti sul personaggio Timpanaro, è il contributo, comunque molto parziale, di Dalmas: basti dire che privilegia, sullo studio dell'Ottocento e di Leopardi, Il lapsus freudiano: ma con `ritorni' su parte almeno della complessa attività timpanariana, tra filologia, storia letteraria, pronunciamenti filosofico-ideologici. E poi, dopo quel formidabile triennio natale? Qui procederò sparsamente, scusandomi per certi silenzi, che non implicano affatto disattenzione, e piuttosto vogliono evitare la stanchezza in chi mi legge. Per il dopo, che riguarda comunque attori come Raimondi o Agosti o Sanguineti o Claudio Magris, tutti con cura effigiati, e ancora altri valorosi e valorosissimi, direi che forse compete troppo col modello l'Agazzi di Citati. E che qualcosa di più, una messa a fuoco più adeguata, spettava a Mengaldo. Tra quelli che più personalmente ho apprezzato metterei invece, fra altri, Donati su Piero Camporesi, Lazzarin su Francesco Orlando, Marco Villa su Gian Luigi Beccaria, Pellini su Luigi Blasucci, Palumbo su Eduardo Saccone. E una particolare menzione riserverei per Simonetti, su Cesare Garboli (con lui è lo stile, osserva Simonetti, che salva dal narcisismo: ma col narcisismo, quando è di qualità ed esplode, come con Garboli, in conoscenza, io sarei anche più condiscendente).
Che più? Invoglino pure i nudi o quasi nomi che ho fatto, così spero, alla lettura delle pagine che loro competono. Aggiungo la cifra, la più evidente e forse unica, e cifra efficace, che lega insieme i cinquantadue `pezzi': i quali tutti partono, alla Auerbach, da un estratto d'autore particolarmente significativo. Un modo per riuscire concreti e il più possibile chiari, entrando subito in casa del critico (eccellente, al riguardo, ma sarebbe di cattivo gusto insistervi, l'ingresso di Ida Campeggiani per quanto riguarda chi scrive).