Dolores Prato non aveva fantasia e lo ribadiva spesso, nelle lettere, negli appunti, nei quaderni su cui ogni mattina, per oltre cinquant'anni, ha riportato i suoi sogni. Non che quella mancanza fosse
un cruccio, per lei: non le interessava creare
mondi e meno che mai evadere o inventare. Né
le stava a cuore l'indagine, lo scavo volto a sviscerare, svelare, smascherare.
A Dolores Prato importava raccontare la realtà visibile, le cose presenti, l'esperienza come fatto relazionale. Voleva trasformare la vita in racconto, ed è la ragione per la quale la sua letteratura non solo si capisce dai frammenti, gli appunti, le bozze: sta lì. Perché lì sta la sua selezione o meglio il tentativo di farne una, che era per
lei il senso della scrittura: cosa e perché colpiva
il suo sguardo, cosa e perché le parlava, cosa e
perché descriveva un fatto. Risposta: praticamente tutto. Questo è stato il suo dramma: per
lei non c'era elemento di scarto; tutto era, in
eguale misura, importante. Dei cinque volumi
che aveva progettato di dedicare al racconto della sua vita riuscì a scriverne solamente uno, Giù
la piazza non c'è nessuno, che uscì per Einaudi
nel 1980, quando aveva ottantotto anni, e lo aveva cominciato a scrivere sette anni prima, ma ci
aveva girato intorno per tutta la vita: quello che
aveva scritto era un prodromo, una bozza di
quello che sarebbe finito lì. 1058 pagine che Natalia Ginzburg tagliò, provocando a Prato un dispiacere insanabile: il libro uscì, integrale, con
un altro editore, solo dopo la morte di Prato (nel
1983), autrice che in vita è stata tanto apprezzata quanto scansata, e ora, da qualche anno, comincia a essere riproposta, un pezzo per volta,
una perla dopo l'altra, da Quodlibet (editore delle Marche, sua casa adottiva). Nell'ultima di
quelle mille e passa pagine in cui aveva raccontato la sua infanzia, Prato scrisse: «Eravamo tutti
inconclusi, la zia, io, lo zio, come il Sile, fiume inconcluso, fiume disperso». L'inconclusione è l'esito di tutta la sua ricerca: lo stare al mondo è
una trasformazione perenne ed è in quel flusso
che deve muoversi la letteratura, è lì che deve
porsi per imbastire il suo racconto. In sostanza,
Dolores Prato, in pieno Novecento, ha scritto
delle fluidità con cui, ora, rinominiamo e riassettiamo il mondo. Prima di Giù la piazza, scrisse articoli e pamphlet contro Roma capitale d'Italia
perché era convinta che la città avrebbe dovuto
restare solo e soltanto vaticana; tutti i sogni che
s'era appuntata per 53 anni (820 pagine, pubblicate nel 2010 da Quodlibet in Sogni); e sempre,
costantemente, della sua famiglia e dell'infanzia che non aveva avuto.
Era nata, nel 1892, da un amore clandestino
tra un avvocato che non la riconobbe e Maria
Prato, che la abbandonò presto a casa di suo fratello, un prete che viveva a Treia, in provincia di
Macerata, e che prima di volerle bene ci mise parecchio ad accettarla. In Giù la piazza non c'è nessuno, Prato racconta di essere «nata sotto un tavolino»: il suo primo ricordo, quello che l'ha condizionata per tutta la vita, è la voce di suo zio che
dice a sua zia che devono darla via e lei bambina, nascosta sotto il tavolo della cucina, capisce
in quel momento chi è: una figlia ripudiata, un
ingombro. E come avrebbe mai potuto, una scrittrice che si diceva venuta al mondo nel momento in cui qualcuno aveva detto che lei era di troppo, una donna che si era riconosciuta nel rifiuto,
scrivere diversamente da come ha scritto, e cioè
negando gli scarti, e dando asilo e importanza a
tutto, nelle sue pagine? Quello stesso zio riluttante, però, l'aveva poi amata, cresciuta, ma
non aveva potuto impedire che lei vivesse da
sgradita, che l'infanzia le venisse tolta: lei era
una bambina esule in casa sua, illegittima per
censo e non per sangue, come sono stati moltissimi bambini nel Novecento italiano. In una lettera del 1978, Prato scrisse che dei suoi cinque libri autobiografici, quello dedicato all'infanzia
(Giù la piazza non c'è nessuno), sarebbe stato il
più lungo perché «l'infanzia è un vuoto immenso dove precipitano le cose», e si disse anche sicura che il libro successivo, quello sull'adolescenza, sarebbe stato assai più breve perché avrebbe
raccontato il collegio: «Con 300 pagine si fa: nel
collegio non ci sono più cose, ci sono solo parole». Quel libro non è mai arrivato: Prato non ne
ha avuto il tempo, l'impresa era troppo lunga.
Ma ci aveva lavorato, e sono rimaste le carte su
cui aveva appuntato l'educazione dalle suore,
moltissimo di quegli anni che, dal 1905 al 1911,
cioè tra i 13 e i 19 anni, trascorse nell'educandato del monastero di Santa Chiara di Treia, retto
dalle monache della Visitazione. Elena Frontaloni ha curato per Quodlibet la raccolta di quella
carte, e le ha messe insieme in Educandato, in libreria dal 29 marzo.
Prato arrivò lì reduce da un'infanzia nella quale, anche se in ritardo, in chiusura di finale, era
stata amata: suo zio s'era fatto convincere che,
non essendo suo genitore, non avrebbe potuto
crescerla nel modo giusto, che la sfida dell'adolescenza richiedeva una forza che a un non padre
non era data e così, per quanto recalcitrante fosse, aveva dovuto cedere, spinto anche dalla povertà di mezzi a sua disposizione. Sbagliava. E
Prato non lo condannò mai: alla loro storia di famiglia improvvisata, voluta dalla necessità, assemblata dalle forze maggiori, anzi, lei ha dedicato la cura delle parole, il mestiere di «vivere
per raccontarla».
Educandato è un altro libro inconcluso ma
preciso: un documento eccezionale di come le
suore si occupavano delle bambine, della sorte
che questo Paese ha riservato a chi non aveva famiglia o non era di buona famiglia. Fa impressione leggerlo ora, mentre discutiamo di cosa
fa un uomo un padre e una donna una madre,
chiedendoci per l'ennesima volta se allevare un
bambino corrisponda solo all'amarlo, se imponga di imprimergli il nostro segno o liberarlo da
noi, mentre cerchiamo di stabilire criteri più o
meno inclusivi per reinventare la famiglia scorporandola dall'identità (ammesso che sia giusto, o almeno efficace). Fa impressione perché
di quel tempo che Dolores Prato racconta, di
quelle stanze enormi e soffocanti in cui ogni
giorno le bambine venivano forzate all'omologazione, al passo silenzioso (e sempre indietro), siamo evidentemente eredi. Lo siamo nel
discutere che i bambini possano e debbano nascere solo e soltanto in un modo, e lo siamo nel
pensare che i figli non siano di tutti, e che quello
che succede ai bambini riguardi soltanto chi li
fa. Tutta la vicenda di Dolores Prato è una requisitoria contro ignoti: noi.
La nostra storia è piena di innocenti a cui abbiamo negato tutto perché non erano nati come
si credeva che si dovesse nascere. Gli orfanotrofi
e i conventi e gli educandati erano istituti in cui i
bambini venivano accolti per espiare la colpa di
essere nati: le radici di chi siamo sono anche lì. Il
nostro Novecento l'hanno fatto i migranti e gli
esuli domestici, i bambini illegittimi.
«Io non vedo nulla della psiche delle persone:
non vedo il perché dei fatti, vedo solo quel che
appare», scrive Prato. E nelle quasi 300 pagine
di questo libro c'è anche il racconto di come alle
bambine recluse, per anni, questo Paese ha consentito che una psiche venisse negata. Non tutte
hanno potuto farne, poi, il cardine di una poetica: non tutte sono sopravvissute.