Recensioni / #PremioBg23 – Due parole con Alberto Ravasio

In attesa della cerimonia di premiazione della XXXIX edizione del Premio Narrativa Bergamo, che si terrà sabato 29 aprile alle ore 18 al Teatro alle Grazie di Viale Papa Giovanni XXIII, proponiamo delle brevi interviste con i cinque autori finalisti. Apriamo con Alberto Ravasio, in cinquina con Vita sessuale di Guglielmo Sputacchiera (Quodlibet Compagnia Extra 2022).

1. Nelle recensioni e nei discorsi intorno al tuo romanzo si citano spesso i modelli di riferimento (da Tiresia a Gregor Samsa), ed effettivamente il loro uso riconoscibile ma non prepotente dimostra consapevolezza. In che modo i modelli letterari (e non) si inseriscono nel processo di scrittura, e come sono stati gestiti nella genesi e produzione di La vita sessuale di Guglielmo Sputacchiera?
A mio avviso il giovane esordiente colto spesso ha accumulato troppi modelli e poca vita, esce da un percorso scolastico lunghissimo quanto inutile, è assediato dalla multimedialità, ha visto qualunque cosa prima ancora di averla vissuta, con il risultato che, quando arriva al romanzo avendo fallito tutto il resto, si rivela una sorta di sofisticatissimo nerd, scrive a rebus, va a infilarsi in bibliografie secondarie, spesso terziarie, e per leggerlo devi aver letto tutto quello che ha letto lui.
A prima vista la soluzione potrebbe essere quella di tornare a scritture locali, a narrazioni delle pianure, insomma provare a riprendersi quello che secondo Pasolini era già andato perduto negli anni Settanta vale a dire le specificità territoriali, i profumi e le puzze del posto, ma anche in questo caso ci sarebbero varie problematiche perché una letteratura deglobalizzata, predigitale non descriverebbe il mondo in cui viviamo e soprattutto non restituirebbe lo stato d’animo contemporaneo, il come ci si sente in questo mondo.
Trovo che chiunque provi a scrivere oggi debba collocarsi inevitabilmente in una posizione intermedia. Da un lato non si può prescindere dalla multimedialità, dalla velocità, dal multidisciplinare, da tutte quelle ineluttabili categorie del contemporaneo di cui parla Simonetti nella Letteratura circostante. Dall’altro è importante non dimenticarsi delle caratteristiche che distinguono il romanzo dalle altre forme espressive: la lentezza, la linearità, lo sputtanamento biografico da Agostino a Proust. In Sputacchiera quindi c’è il paese, c’è il cosiddetto vissuto personale, ma c’è anche il culturame, ci sono le citazioni consce e inconsce, l’orgia postmoderna del virtuale, ma i riferimenti non sono ricattatori né elitari né enigmistici e se mia nonna fosse ancora viva e io le leggessi il romanzo al telefono lei lo seguirebbe senza problemi e mi darebbe sia del fascista che del comunista. Quanto al metodo di pseudolavoro mi sono organizzato più o meno in questo modo: ho sempre fatto i compiti a casa fino alla laurea magistrale, ma per cominciare a scrivere davvero ho prima di tutto smesso di leggere, come suggeriva Nietzsche in Ecce homo. Coi libri sulla scrivania avrei corso il rischio di documentarmi e a quel punto invece di scrivere avrei riscritto.

2. A colpire chi legge è sicuramente anche l’uso studiato di un linguaggio spesso crudo, parodistico e originale. I neologismi sono molti e d’impatto. In che modo un linguaggio così “ricercato” è funzionale alla storia, e come si inserisce nel processo creativo e di scrittura?
Rispetto allo stile mi pare ci siano due soluzioni dicotomiche e in mezzo molte vie intermedie: c’è chi adatta lo stile all’opera e chi adatta l’opera allo stile.
Il primo metodo è quello flaubertiano, ma anche verghiano, dello scrittore che scrive sforzandosi di essere tutto tranne se stesso, qualunque cosa voglia dire, perché se fosse se stesso sarebbe inautentico, letterario, moralistico, borghese, e allora bisogna abbassarsi (Verga) o transessualizzarsi (Flaubert con Bovary). Nelle scuole di scrittura ricreativa questo metodo si riassume nell’imperativo anglofono dello show: mostra e lascia che sia il lettore a metterci la morale, il romanzo è un motore pigro e così via.
Il secondo metodo invece prevede che lo scrittore sia in un certo senso riconoscibile a se stesso e agli altri in qualunque cosa scriva o dica, nelle mail, negli articoli, negli sms, nelle liti stradali e televisive, nelle interviste, tanto che spesso se è bravo finisce per diventare il venerato solito stronzo mentre se è scarso, o semplicemente vecchio, la sua parodia. Penso a Oscar Wilde, Céline, fino a Houellebecq. Sempre nelle scuole di scrittura questo metodo, dai più sconsigliatissimo, si definirebbe tell: scriviti addosso, non uscire mai dalla scrittura, scrivi come se parlassi e parla come se scrivessi, non scrivere i fatti ma le interpretazioni.
Al di là della qualità che è tutta da verificare io applico il secondo metodo, o comunque quando scrivo me la racconto così. Lo stile è fisso e il romanzo cambia in base alle peripezie, ai risentimenti, agli infortuni eterosessuali del momento. Il mio primo scopo è quello di ritrovarmi ogni volta nel mio brutto personaggio autoriale, di fare in modo che il lettore dica: «Rieccolo, con i suoi neologismi ficali e le parafilie letterarie. Aspetta che chiamo i vigili».

3. Le critiche, di carattere poco letterario, che sono state mosse o che potrebbero essere mosse a La vita sessuale di Guglielmo Sputacchiera sono diverse e contrastanti: da quelle più puritane offese dal protagonismo scomodo della religione in questo romanzo o dalla messa in discussione della mascolinità o della dicotomia del genere, a quelle più progressiste che potrebbero invece attaccare proprio la rappresentazione problematica della “fluidità” di genere. Era negli intenti comici del romanzo, e come ci si barcamena tra accuse così agli antipodi?
Credo che il romanzo abbia in effetti due tipologie di interlocutori litigiosi e forse impossibili.
Da una parte c’è ovviamente il bigottismo paesanotto con i vari comandamenti cattolici: non desiderare, non studiare, non omosessualizzarti. In Sputacchiera io scrivo degli ultimi da penultimo, scrivo della provincia restandoci dentro e senza i privilegi economici dello scrittore in gita verista. Dato che dopo il boom gli ultimi si sono arricchiti, prima o poi mi comprano, si leggono, si scandalizzano e reagiscono come possono, lapidandomi coi melograni, stroncandomi sui giornali orobici, mandandomi lettere di diffida dall’Azzeccagarbugli.
C’è poi un tipo di perplessità molto più interessante ma altrettanto ostica che è appunto quella di una critica letteraria progressista e cosmopolita e multiculturale e postfallica.
In ambito accademico ma non solo si tende spesso a politicizzare il discorso sui libri: il canone è così ma poteva anche essere diversamente ed è così perché è l’esito di determinate condizioni storiche. Si mettono al centro i temi e ogni gerarchizzazione estetica puzza di crocite fuori tempo massimo, mentre io, dovendo scrivere i romanzetti, ho ancora bisogno degli ottimi cattivi modelli e se veganizzo la mia dieta libraria e tolgo Roth e metto poniamo Evaristo non solo perdo la capacità di leggermi leggendo, ma mi mancano anche le energie letterarie per scrivere e mi tocca la vanga.

4. «Guglielmo c’est moi» hai affermato riferendoti al ritratto generazionale di cui il protagonista del tuo romanzo si fa portatore, ammesso e non concesso che fosse questo il fine ultimo dell’opera. Come ci si muove o come si trova l’equilibrio tra “autobiografia”, in senso esteso e non letterale, e la scelta del romanzo come genere letterario?
L’autobiografismo per come lo intendo io in Sputacchiera e in generale nella mia scrittura non ha quasi nulla a che vedere con l’esibizione pornografica dei fatti miei, se non quando sono in vena di teppismo o vendetta poetica. L’autobiografismo riguarda i pensieri, le riflessioni, i punti di vista. Quando scrivo non dico tutto quello che ho vissuto ma cerco di dire, applicando l’intelligenza e il ritmo, tutto quello che penso davvero.
Per adoperare un’espressione giornalisticamente in voga si può dire che io concepisca la scrittura come un continuo coming out intellettuale soprattutto per quanto riguarda le due lenti attraverso cui guardo la cosiddetta realtà, ovvero il sesso e i soldi, e dunque le domande sconce che mi pongo sono: «Ma questo cosa fa la notte?» e «Da dove vengono i soldi?»
Il coming out sessuale implica che nei miei personaggi maschili io non censuri un desiderio eterosessuale percepito in certi contesti colti ed emancipatissimi come inopportuno, anacronistico, retroguardista. In ambito editoriale se da una parte si assiste anche giustamente a una quasi assoluta onnipotenza espressiva femminile, il giovane maschio bianco eterosessuale deve smetterla di scrivere dell’erezione anche solo mattutina perché ha stufato, perché è qualcosa di irresponsabile, passatista, già letto e straletto, bukowskiano.
Ma invece di riflettere su questo, di scriverci su, per esistere comunque il giovane aspirante scrittore provvisto di pene nella maggior parte dei casi passa al romanzo storico, al fantastico, al distopico, oppure infantilizza e animalizza i personaggi, tenendosi a debita distanza dal famigerato desiderio e dal corpo, temi quasi esclusivamente femminili. In Sputacchiera quel desiderio castrato persiste, tira avanti anche senza i genitali, e viene rinnovato, problematizzato, risemantizzato, o almeno quello è l’intento.
Rispetto al coming out finanziario quando scrivo mi preme fare la dichiarazione dei redditi, tirare fuori gli scontrini, esplicitare chi mantiene chi, come campano le persone. La nostra generazione parla di tutto ma mai e poi mai dei soldi, degli stipendi, del lavoro, ciascuno di noi si muove in una sorta di autismo agonistico da piccolo imprenditore fallito di se stesso e questo impedisce la solidarietà tra simili, quella che secoli fa si sarebbe chiamata una coscienza di classe.

5. Infine, una domanda più leggera che da sempre rivolgiamo ai finalisti del Premio Bergamo: quale tratto del tuo libro pensi possa farlo vincere?
Il problema del Premio Bergamo penso siano i bergamaschi compreso io, così come il problema di un Premio Saturno sarebbero i saturnini o i saturnesi.
A differenza di una competizione sportiva dove vige l’agonismo tendenzialmente meritocratico in un premio letterario si assiste spesso alla carnevalizzazione dei valori estetici, al rovesciamento degli ultimi in primi e viceversa. Il premio letterario di solito o è in mano al mercato, che premia il vincente nel senso di più venduto, oppure è in mano alla giuria popolare, ai simpatizzanti, agli esaltati locali, che nel dubbio critico scelgono quasi sempre Barabba. Il Bergamo nella selezione preliminare non obbedisce a logiche commerciali perché non sposta una copia a parte quelle che invia l’editore, c’è una giuria notevole e quindi le cinquine non scendono mai sotto il grado zero di letterarietà, ma poi subentrano i bergamaschi, cioè tutti, e lì si rischia che a vincere sia il libro meno difficile o l’autore più intonato.
Per come la vedo io lo scrittore più importante in cinquina è Vasta e il libro più maturo è quello di Melchiorre, ma applicando la carnevalizzazione, la dittatura dei tutti, è anche possibile che vinca un vinto come Sputacchiera, magari anche solo per dare una mancia autoassolutoria al sedicente giovane infortunato economico del posto.

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