Recensioni / Il Giornale di pittura (1954-1964) di Toti Scialoja

La lettura dello splendido Giornale di pittura di Toti Scialoja (Quodlibet, 2022) sembra aprire un portale temporale, testimoniando una Stimmung di cui l’attuale spirito del tempo forse non ha più nemmeno il sospetto; e però le riflessioni di Scialoja ci risultano familiari, risuonando nelle armoniche d’un che di desiderato e “classico” – ci fanno pensare: così scrive un artista, così un artista dovrebbe lottare col tema della propria arte (cioè dell’arte-vita), con serietà e tenerezza, confidando nell’esile speranza di non sperare in una risposta definitiva.

Il Giornale di pittura (1954-1964), parzialmente edito nel 1991, “si presenta qui [avverte la quarta di copertina] per la prima volta in edizione integrale, fondata sugli originali dattiloscritti e manoscritti, fedele all’ordinamento predisposto dall’autore”. Promosso dalla Fondazione Toti Scialoja Onlus, il volume è a cura di Maria De Vivo, Laura Iamurri, Onofrio Nuzzolese, Angelandreina Rorro; prefazione di Arnaldo Colasanti.
Si tratta di un testo corposo e densissimo. In ogni pagina è possibile trovare qualcosa di interessante, se non memorabile; in ogni pagina si recepisce la testimonianza di un pensiero appassionato senza compiacimenti, severamente critico eppure non disilluso. Scialoja è intento a riflessioni sulla pittura, ma in questo “giornale” la ricchezza polimorfa dei suoi interessi d’artista e scrittore è attivamente presente, come controcanto implicito, o esemplificazione, o fecondo deragliamento. Qua e là è possibile perfino cogliere, sebbene dissimulato, qualche sentore del suo gusto per un affettuoso delirio dei significanti, manifestato altrove (si ricordi ad esempio Una vespa! Che spavento! , oppure “L’albatro a cui tendevi / un piccolo caimano / volò così lontano / che non lo vedi più”, in La zanzara senza zeta).

Ma il tono dominante di questo Giornale di pittura, il respiro che Scialoja volle insufflarvi, è quello di un inesausto incontro fra il contornare mediante le parole qualcosa che parola non è, la pittura, e qualcosa che alla parola specificamente sfugge, ovvero la fenomenologia del vivere-in-quanto-artista. “Fenomenologia” non è qui termine metaforico, in quanto i riferimenti essenziali di queste riflessioni appartengono al cotè fra fenomenologia ed esistenzialismo caratterizzante un dibattito avvertito e autentico nell’ambiente artistico di allora. L’identificazione fra un certo modo di percepire la condizione dell’artista e una specifica nozione di arte risultava per lo Scialoja di quegli anni talmente fondata da fargli avvertire come un tradimento la metamorfosi del dibattito (o il suo incipiente venir meno) avvenuta negli anni Sessanta in direzione di quello che in seguito cominciò a definirsi “sistema dell’arte”, con quel che segue. Si legga ad esempio: “Teoria della creatività. Arte è un modo della creatività dell’uomo, della sua liberazione posta come libertà in atto, fine raggiunto, assoluto posto e fondato. […] Arte come affermazione dell’uomo per quel che esso possiede […] di creativo, di inventivo, di assolutamente autonomo ecc. Il critico d’arte di nuovo tipo è un tetro burattino, una marionetta meccanica, un funzionario automatico in lotta mortale contro questa grandezza, questo supremo disinteresse, questa luce che si rapprende nei corpi” (gennaio 1964, p. 510). Nelle centinaia di pagine del Giornale di pittura la questione della libertà dell’artista è un vero leitmotiv. Non si tratta però di variazioni su una nozione idealistica e/o “sovrana” di libertà, giacché viene reiteratamente tematizzata la latente insensatezza d’una libertà intesa come indifferenza, nichilistica presenza-assenza. Innestata nelle questioni ai tempi all’ordine del giorno, la riflessione di Scialoja ritorna instancabile a cercare un nesso possibile fra l’impulso creativo individuale (e perfino sulla possibilità di tale impulso) e l’eventuale valore per così dire assoluto sia di quell’impulso, sia del suo esito. In questione è il nesso fra libertà e sensatezza nella “tradizione del nuovo” novecentesca, nella torsione fra i modi dell’Avanguardia storica e quelli del modernismo statunitense.
Scialoja racconta di incontri con gli amici dell’ambiente romano, pittori e scrittori (cita di frequente Burri, spesso criticandolo); ma sembra dibattere, teoricamente, soprattutto con gli “statunitensi”, Pollock, De Kooning, Gorky, Guston. “[…] ho visto il fim di Namuth su Pollock […]. Pollock si muoveva semplice e serio, come un attore” (marzo 1958, p. 184 e p. 185); “Oggi è possibile trarre da Pollock una lezione antiamericana […]. Pollock ha saputo rinvirginare in modo incredibile la lezione di Mondrian; la sua frenesia è metodica e graziata come ogni cosa che nasca direttamente dal cuore” (4 agosto 1958, p. 226).
Scialoja giunge talvolta a formulazioni alquanto sorprendenti. Gli “statunitensi” avevano messo in questione l’operatività vitalistica del dipingere, l’azione, come essenziale termine di paragone di un eventuale “valore” della pittura, individuandovi la pietra filosofale in grado di trasmutare l’arte in vita e la vita in arte; oppure, all’opposto, avevano iniziato a scommettere su di un’ipotetica essenzialità in fin dei conti “scientista” dell’agire artistico, giustificato quindi dal mettere in campo una progressione di elementi ritenuti specifici della specifica arte – e accusando di fallimento i tentativi d’opera mancanti di questo sedicente carattere tecnofilosofico. In altri termini, la pittura finiva con l’essere stretta nella trappola fra la temporalità del suo darsi e la presunta oggettività (in fin dei conti surrettiziamente scientifica) del concentrarsi sull’istante del rapporto conclusivo con la superficie.
In quasi ogni pagina del Giornale di pittura Scialoja contorna questa divaricazione, tentando di individuarvi un’intercisione. E talvolta appare una vera via di fuga. Si legga ad esempio: “La mia pittura tende non ad una immagine ma ad una visione. Visione vuol dire direzione univoca, verità apparsa. Una visione è visione per me. Simbolo ‘non finito’ perché assolutamente presente, fondato sul suo essere sé, in sé. Si riferisce al mio punto di vista assoluto, al mio elevare ad essenza ciò che è visto da me nel mio esistere come visività. È visività pura, identica. Visione è invenzione soggettiva, di cui il soggetto è diretto inventore” (aprile 1959, p. 297).
In riflessioni come quella appena citata la contraddizione fra temporalità e attualità della superficie viene fatta implodere: la “visione” appare come una sorta di simbolo “riposante in sé stesso” che il pittore, in assoluta autonomia, ha in dono – e di cui senza nemmeno pensarci fa dono (aggiungo, sperando di non sovrainterpretare il testo, che di questa conseguenza non fa cenno).
Ricorre dunque il riferimento più o meno esplicito a una dimensione mitica, intesa talvolta come qualcosa di originario, “puro”, vicino a una scaturigine interna/esterna e soggettivo/oggettiva. In certi casi Scialoja fa cenno a un elemento esperienziale, connotativo, perfino affettuoso – in questo senso va segnalata la presenza della compagna Gabriella Drudi, grande critica d’arte. Si legga ad esempio: “‘Questo è il primo quadro puro che tu abbia dipinto. È fatto di purezza e non di bellezza. È un’emozione pura: come la frase ‘nero come un cappello’ oppure ‘le gote in fiamme’. Devi seguitare a dipingere finché questa purezza sia espressa talmente da divenir manifesta per tutti: dipinger sempre due soli quadri: il giorno e la notte, il sole e la luna, l’indistinto della tenerezza e l’incubo della determinazione. Quadri tutti scavati nella stessa sostanza, nati dallo stesso gesto, tutti interi, tutti interni; una fiammata che sale oppure un’ombra che discende’. Questo mi dice G[abriella] davanti al mio ultimo quadro rosso e arancio finito il 23 dicembre” (dicembre 1957, 175).
Le riflessioni di Scialoja accompagnano ovviamente lo strutturarsi della nozione di impronta, esito di un’esigenza soggettiva e di uno spingersi verso il limite costituito dalla materia. “Credo in un esprimere che sia un imprimere, cioè toccare il limite, la pelle delle cose che amo, aderire per necessità, ma non coincidere. Un più di pressione” (marzo 1958, p. 191).
L’impronta è anche tramite, metaxy, tra temporalità e “superficie”. Cito un passo caratteristico: “L’incontro, nel campo, tra materia e impronta, non potrebbe stabilirsi come incontro tra questi tempi diversi? Tra il tempo soggettivo dell’impronta e il tempo assoggettato dell’animazione? L’intenzione mimica del campo non dovrà esser rappresentata o trascritta, ma dovrà essere provocata metaforicamente: un simbolo attuato attraverso un moto, quel certo moto, in superficie; uno scorrere o un impigliarsi, un contrarsi o un disfarsi, un tendersi o uno sparpagliarsi ecc.” (20 luglio 1961, p. 434).
Molti anni dopo, la questione riapparirà nella risposta a una riflessione di Giorgio Agamben, di cui qui cito un passo: “Penso alla velatura nei tuoi quadri come a una sorta di cancellazione etica del tempo (di qui il mio prediligere – nei tuoi quadri – il momento della velatura e dell’impronta su quello del tempo e della successione” (11 marzo 1980, p, 619).
E cito un passaggio della risposta di Scialoja (che molto opportunamente i curatori hanno posto subito prima di alcune frasi di Zanzotto, a conclusione di questo libro fuori dall’ordinario): “Un viaggio intrapreso verso l’invisibile. La velatura-cancellazione potrebbe essere insieme la riduzione del visibile a una possibilità di segni, a un peso di segni che avrebbero potuto essere. A questo titolo la visione velata non ritorna al nulla (o alla soggettività pura: la memoria) come se non fosse mai apparsa, ma pare riferibile piuttosto alla husserliana verità ‘cancellata’ da una più nuova, ma trasparente, verità. La superficie è allora, dalla velatura, non allontanata, ma, nel suo interno, dilatata verso l’invisibile” (19 marzo 1980, p. 620).