Fu una lunga amicizia quella tra Italo
Calvino e Gianni Celati, due scrittori
che hanno segnato le loro rispettive
generazioni: Calvino classe 1923, Celati 1937. Neanche tanto distanti anagraficamente, ma divisi dalle esperienze più
forti. L'uno partigiano nella divisione Garibaldi ed entrato in letteratura dalla porta
neorealista. L'altro troppo giovane pervivere la Resistenza e troppo grande per partecipare al '68, troppo avulso e diffidente per
aderire al Gruppo 63 (gli bastò annusarlo
restandone un poco ai margini), sarà protagonista del '77 bolognese, ma a suo modo: inventandosi al Dams dei frequentatissimi seminari sul personaggio di Alice.
Calvino e Celati si conobbero nel 1968 a
Urbino in occasione di un convegno di semiotica. Erano, appunto, gli anni della semiotica e dello strutturalismo, Calvino aveva lasciato Torino e pur continuando a collaborare per l'Einaudi si era trasferito a Parigi dove frequentava il gruppo dell'Oulipo
e Raymond Queneau, di cui nel 1967 aveva
tradotto I fiori blu. E Nunzia Palmieri, nell'ultimo numero della rivista «Autografo»
(Sul confine dei carteggi di carta. Lettere
letterate 1931-1996), a ricostruire quello
scorcio temporale, ricostruendo gli esordi
di Celati, prima come traduttore (di Swift e
di Céline) e saggista, in seguito come narratore con racconti editi su riviste orbitanti
attorno alla neoavanguardia. Il suo primo
romanzo, Comiche, uscirà nel 1971 proprio
grazie a Calvino nella collana sperimentale
«La Ricerca Letteraria» di Einaudi.
Palmieri, che ha curato con Marco Belpoliti il Meridiano di Celati, ricorda le difficoltà dello scrittore nei rapporti con gli
editori: «Ero giovane, discutevo di tutto e
volevo avere sempre l'ultima parola». Non
era un carattere facile, e tanti se ne sarebbero accorti. Ecco come Celati raccontò
l'incontro urbinate: «Per tre giorni abbiamo parlato quasi ininterrottamente e lui
era ancora eccitato da quello che aveva visto durante le giornate di maggio a Parigi.
Ne parlava con straordinario entusiasmo;
diceva che era andato in giro per le strade
con un senso di liberazione (...); e mi raccontava che adesso si sentiva di `voltare pagina"».
Intanto, dopo la laurea e l'esperienza di
insegnante in scuole di campagna, in quel
1868 fatale anche Celati aveva deciso di lasciare l'Italia: per Londra. Ed è tornando
dall'Inghilterra che fece tappa a Parigi per
fermarsi dall'amico Italo: nacque lì il progetto di una rivista, «Alì Babà», pensato
con il francesista Guido Neri e con lo storico Carlo Ginzburg. Per Calvino, il giovane
Celati era a quel tempo «un vulcano di
idee»: «l'amico con cui ho lo scambio
d'idee più nutrito». Preciserà più tardi:
«Tutto ciò che gli stava più a cuore in letteratura, da Lewis Carroll a Samuel Beckett,
stava a cuore anche a me». La difficoltà
semmai, aggiungeva, era «tenergli dietro»:
«Appena riuscivo a entrare nel filo del suo
discorso (...) lui era già passato ad altro; e
dovevo ricominciare da capo». Tuttavia, se
il progetto della rivista è destinato a fallire,
è perché i due amici vanno scoprendo differenze sostanziali• sul rapporto tra politica e cultura per esempio. Le divergenze
esplodono qualche anno dopo quando Celati propone di pubblicare barzellette, proverbi, fatti di cronaca e un «elogio del fotoromanzo» che Calvino giudica una «vaccata immonda» (la staticità del fotoromanzo
è secondo lui tutto il contrario di ciò che richiede il romanzesco).br>
Nel marzo 1972 la rivista, per Calvino,
non è più «necessaria», rischierebbe di diventare un foglio di studi letto da quattro
gatti. La cronistoria del fallimento, attraverso le lettere, è ben ricostruita in un numero della rivista «Riga» del 1998. Ma altri
scambi epistolari testimoniano differenze
di vedute non facilmente colmabili. Sin
dalla discussione sul risvolto di Comiche:
rispondendo a una prima proposta di Calvino, il giovane Celati lo costringe a correggere rivendicando la sua contrarietà verso
ogni eccesso di programmazione del romanzo e verso ogni gioco combinatorio. E
nella stessa lettera dichiara piuttosto il suo
interesse per la «bagarre, quando tutti si
picchiano, tutto scoppia, crolla, i ruoli si
confondono, il mondo si mostra per quello
che è, cioè isterico e paranoico, e' insomma
si ha l'impazzimento generale».
La corrispondenza si infittisce quando,
nel 1972, escono Le città invisibili: in quella occasione, Calvino, deluso dalla freddezza con cui la critica ha accolto il libro, si rivolge all'amico per chiedergli un intervento capace di chiarire i presupposti teorici
del progetto narrativo. Le testimonianze
epistolari su quell'episodio sono purtroppo in gran parte perdute, poiché le lettere
di Calvino, chiuse con altri importanti documenti in un baule della casa bolognese
di Celati, sono scomparse durante una sua
assenza. A proposito delle Città invisibili
Celati si esprime in diverse interviste (le
sue conversazioni tra 1974 e 2014 sono ora
raccolte nel volume II transito mite delle
parole, a cura di Marco Belpoliti e Anna
Stefi, edito da Quodlibet). Parlando con
Michael Caesar nel 1982, definiva il libro di
Calvino come «l'esempio di un modo di
narrare di superficie, senza andare in profondità» e in questa cancellazione della
tradizionale profondeur di sentimenti ed
emozioni consisterebbe secondo lui la sua
vera novità.
Sono quattro le lettere di Calvino risalenti ai primi anni Ottanta e ora leggibili
grazie alla donazione delle carte celatiane
alla Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia: vale la pena ricordare che la conservazione e
la sistemazione di questo fondo, insieme
con un archivio che avrebbe dovuto costituire un piccolo «museo» familiare, si devono alle cure del fratello maggiore di
Gianni, Gabriele, morto nel 2003. Devoto
custode delle sue carte e in alcuni frangenti
suo generoso finanziatore, Gabriele era
inizialmente «lo scrittore di famiglia», ma
la sua attività, come ricordava Gianni, rimase sotterranea e inconclusa. Nel proporre le quattro lettere inedite, Palmieri fa notare come queste smentiscano l'idea diffusa secondo cui tra i due amici negli ultimi
tempi fosse calato il silenzio. Dopo una delicata fase di passaggio che riguarda soprattutto Celati negli anni che seguono Lunario del paradiso (1978), i due si ritrovano
nell'estate 1983, quando Calvino sottopone
all'amico alcuni racconti usciti sul «Corriere» e rielaborati in vista di Palomar.