Recensioni / Gide, virtù delle minoranze nell’interesse generale

Il dibattito sull’Europa, sulla sua identità culturale e sul suo problematico futuro, ricorre a più riprese negli ultimi secoli, almeno da quando il Romanticismo tedesco ha dato forma alle due opposte visioni che ancora oggi, mutatis mutandis, si fronteggiano: da un lato il mito identitario delle radici cristiane e medievali, elaborato da Novalis in funzione contro-rivoluzionaria nel suo saggio del 1799, La Cristianità ossia l’Europa; dall’altro una caratterizzazione, solo in apparenza paradossale, in termini di «diversità» e «mutevolezza», proposta da Friedrich Schlegel, fondatore della rivista «Europa» e fra i primi a parlare con convinzione di una «letteratura europea» – qualche anno prima che Goethe coniasse l’etichetta, ben altrimenti fortunata, di Weltliteratur.
La contrapposizione riemerge periodicamente, e con particolare acuità nei periodi di crisi: il dibattito nasce infatti mentre le armate napoleoniche intraprendono un primo tentativo di unificazione violenta dell’intera Europa, ha il suo momento più alto e drammatico negli anni della Grande Guerra – «suicidio» del continente, secondo Romain Rolland, e in ogni caso punto di svolta della storia occidentale, per la ragione icasticamente riassunta da Paul Valéry nel 1919: «Noi, le civiltà, ora sappiamo di essere mortali» –, si prolunga con toni spesso angosciosi fino al 1945, per poi perdere d’intensità, o ridursi a schermaglia giornalistica, proprio negli anni in cui nasce la Comunità (e in seguito l’Unione) Europea. Tuttavia, anche se l’idea di una letteratura (e di una cultura) europea sembra perdere progressivamente plausibilità di fronte alla globalizzazione dell’immaginario, non sarà forse un caso che nel momento in cui il fantasma della ‘guerra civile europea’ si affaccia di nuovo ai confini orientali del continente, l’editore Quodlibet abbia voluto riproporre – per la prima volta in un unico volumetto, in traduzione italiana, nell’elegante collana «Elements» – i più importanti interventi sull’Europa di quello che lungo tutta la prima metà del secolo scorso è stato forse l’autore europeo più prestigioso – non certo il più influente dal punto di vista letterario, ma probabilmente quello dotato di maggior capitale simbolico: André Gide, Il futuro dell’Europa e altri scritti (traduzione a cura di Paola Codazzi, Tania Collani, Martina Della Casa e Paola Fossa, pp. 144, € 12). Proprio Gide lo dice infatti con la consueta, cristallina chiarezza: «il senso di un interesse comune si risveglia solo di fronte a un pericolo comune».
Nel secolo XXI, Gide non va di moda: l’algido classicismo dello scrittore ha avuto una posterità letteraria tutto sommato circoscritta; e l’uomo, che alle lenti dell’oggi può assumere i tratti del colonialista pedofilo, sembra – poco meno dell’antisemita Céline – vittima predestinata della cancel culture. Di una dizione retoricamente impostata e di un pregiudizio occidentale (o, meglio, francocentrico) serbano indubbiamente traccia anche i suoi saggi europei, scritti nell’arco di quasi trent’anni (1919-1946), in reazione alle più tragiche vicende dell’epoca: le macerie della Grande Guerra, l’ascesa dei totalitarismi, la violenza del secondo conflitto mondiale. E tuttavia, nella schematica contrapposizione da cui ho preso le mosse, Gide si colloca senz’ombra di esitazione dalla parte di Schlegel: contro le nostalgie religiose dei seguaci di Novalis, lontano dal mito di una «rivoluzione conservatrice», alimentato negli stessi anni da un altro grande europeista, Hugo von Hofmannstahl.
Che precisamente la varietà delle lingue, l’incoercibile disomogeneità delle culture, insomma la coesistenza delle diversità («la virtù delle minoranze», «dei piccoli popoli» e «dei piccoli numeri»), sia il punto di forza della storia europea, e l’unica base solida per un progetto di pace e prosperità, è convinzione che Gide condivide con tutto il filone dell’europeismo laico e non identitario. Nel saggio del 1923 sul Futuro dell’Europa la riassume in una formula memorabile: «È rendendosi il più possibile particolari che si serve meglio l’interesse più generale»; i benefici dello «sradicamento» fanno aggio su quelli dell’identità (religione, terra e sangue), agitati dalla propaganda nazionalista; nel «concerto europeo» – metafora ricorrente – l’armonia si può creare soltanto se ciascuno strumento porta la sua nota distinta.
Fin dal 1919, mentre modula in forma interrogativa la stessa angosciante presa di coscienza espressa quell’anno da Valéry («la nostra civiltà, la nostra cultura è ancora prolungabile?»), Gide contesta la «confusione tra cultura europea e denazionalizzazione». Sono pagine preziose per chi volesse riprendere il progetto, lanciato nei dipartimenti di letterature comparate alla fine del Novecento, e ormai sempre più trascurato, di un canone letterario europeo condiviso, spendibile anche nelle scuole del continente: semmai lo si costituisse – sembra alquanto improbabile, perché l’insegnamento della letteratura tutto è fuorché una priorità per la Commissione Europea – non dovrebbe essere composto, avverte Gide, da testi facilmente traducibili e improntati a un’uniformità di valori (come quelli imposti, oggi, dal mercato del global novel); al contrario, «l’opera più degna di occupare la cultura europea è innanzitutto quella che rappresenta più specificatamente il suo paese d’origine».
Questa difesa strenua dell’individuo, del particolare, della specificità, della singolarità ha una genealogia culturale precisa, in cui convergono l’ethos alto-borghese del liberalismo ottocentesco e gli imperativi morali della teologia protestante. Intorno al 1920, ha anche precisi obiettivi polemici: l’unanimismo di Romain Rolland, il «piatto razionalismo» sovranazionale di Henri Barbusse e del gruppo «Clarté», entrambi inclini a enfatizzare gli elementi di comunanza fra i popoli, in un’ottica di collaborazione più o meno diretta con la Terza Internazionale; nasce infine da una riflessione esistenziale, dal disagio di fronte a una «generazione» più giovane che «desidera solo congedarsi dal proprio io». E tuttavia, paradossalmente, l’esaltazione del particolare si declina anche, in Gide, in funzione anti-tedesca, dal momento che il proprium della «razza» germanica starebbe precisamente nella «straordinaria difficoltà» dell’individuo «a staccarsi dalla massa». Mentre è grazie allo «spirito francese, più libero, più vivace», che le moderne singolarità hanno trovato il terreno più fertile per svilupparsi: «Il francese non rinuncia volentieri alla sua dimensione d’individuo; tutta la sua cultura tende, inoltre, a sviluppare e ad acuire il suo innato spirito critico».
I pregiudizi idealistici sono ancora moneta corrente negli anni fra le due guerre: esiste uno «spirito delle Nazioni», si può descrivere la psicologia dei diversi popoli; e Parigi è ancora la capitale culturale dell’Occidente, la città dei diritti dell’uomo e delle Lumières. Era forse inevitabile, perciò, che tutto il discorso di Gide fosse minato da un’aporia ai nostri occhi imbarazzante: le curatrici, brave anche nel condurre un esperimento di traduzione collettiva, non la passano sotto silenzio. Ma l’ambivalenza ha anche una forza propulsiva, e il programma suggerito da Gide, nel Discorso pronunciato a Pertisau (1946) per contrastare il nichilismo che minacciava l’Occidente nel secondo dopoguerra, può ancora valere da antidoto contro i relativismi sciocchi del politically correct, di cui il nostro presente è infestato: «Più mi direte e mi convincerete che non c’è nulla di assoluto in questo mondo e nel nostro cielo, che la verità, la giustizia e la bellezza sono creazioni dell’uomo, più mi convincerete che, quindi, è nell’interesse dell’uomo mantenerle e che ne va del suo onore. L’uomo è responsabile di Dio».