Quando nel 1974
Georges Perec si prefisse l'iperbolico
obiettivo di esaurire
gli elementi che
componevano «un
luogo parigino» (segnatamente, Place
Saint-Sulpice) munito soltanto di penna e taccuino, non stava facendo altro che esplorare
una sezione particolare del immaginifico edificio di follia e
gioco che era per lui la scrittura letteraria, costruito sulla
impossibile pretesa, e una speranza non priva di una autoironia divenuta inconfondibilmente à la Perec, che le parole
potessero re-inventare il mondo attraverso l'elaborazione
di uno stile ma anche per via di
una radicale, e paradossale, negazione di esso.
Tra il 1973 e il 1981, questa
esplorazione dei limiti del linguaggio fu estesa da Perec fino
al minuto dettaglio riferito a
se stesso, in una seguitissima
rubrica tenuta sui giornali
francesi, nella quale lo scrittore elencò le più trascurabili cose (mangiate, scritte, pensate,
esperite, osservate).
E così, in L'infra-ordinario
(riedito da Quodlibet nella
stessa traduzione di Roberta
Delbono uscita per Bollati Boringhieri nel 1994, pp.120, €
13,00), si leggono centinaia di
variazioni sul tema del saluto
estivo via cartolina, tipi di formaggio mangiati nel corso di
un anno, nomi di insegne stradali. Alla ricerca, attraverso
l'affastellarsi di quei particolari apparentemente futili che
affollano la cosiddetta «realtà», di una qualche segreta ragione ordinatrice, che dalla
scrittura delle parole possa trasferirsi al mondo.