«Educandato» è parola
d'altri tempi che sa di
trecce ben tirate e annodate senza vezzo di
nastri, di divise, scarpe
basse e gonnelle sotto il ginocchio, di
tombolo, ricami e cucito, di preghiere,
refettorio, dormitorio e campanelle.
Abiti e attività sono tutti declinati al
femminile, sebbene proprio la femminilità fosse castigata: sotto il soggolo e il
velo delle suore e sotto il grembiule delle educande. Perfino l'identità delle singole alunne risultava malcelata — molto
male, perché in una società così gerarchica ciascuna si portava inevitabilmente con sé nomi di famiglia e titoli, e perché «il privilegio lì dentro appariva sempre, anche nella raccolta dei fiori» -
traspariva camuffata dietro al numero di
matricola riportato sul registro e ricamato su corredo e biancheria.
Dolores Prato era il numero 7. Era
entrata in collegio, ovvero nel monastero delle Visitandine di Treja, distaccato
dal convento della Visitazione di Lucca e
annesso nel paesino marchigiano alla
chiesa di Santa Chiara, nel 1905, tredicenne. Ce l'aveva trascinata e rinchiusa
la zia Paolina, lei, la bastarda, figlia di
padre ignoto, allevata dalla sorella nubile della madre e dallo zio sacerdote Domenico-Zizì.
L'infanzia, «il vuoto immenso dove
precipitano le cose», trascorsa a Treja
dagli zii, sarebbe riemersa, incantevole e
indelebile, nell'immenso capolavoro Giù
la piazza non c'è nessuno, scritto a memoria dall'autrice ottantenne tra la metà
e la fine degli anni Settanta, fortemente
tagliato e ricomposto da Natalia Ginzburg per Einaudi nel 1980 e restituito
alla sua smagliante integrità da Giorgio
Zampa per Quodlibet nel 2009. All'infanzia, avrebbe posto fine proprio l'entrata in collegio.
Il passaggio all'adolescenza fu segnato
dall'attraversamento di una soglia pesantissima: il portone dal gigantesco
battente dischiuso per far entrare «Lolita» dalla piccola monaca, la madre Superiora, che pareva esservi attaccata
come un'appendice. Uno schianto, una
frattura, un grido belluino e l'età «senza
parole» se ne sarebbe andata senza che
l'adolescente si voltasse indietro a salutare con uno sguardo. «Non soffrivo e
non capivo, ero spezzata». Aveva spezzato sé stessa non appena le era stato chiaro che in collegio, perché fosse educata,
ce l'avrebbero messa davvero, quando
«con urlo di belva pugnalata» aveva
strappato di mano il pettine alla zia intenta per l'ultima volta a ravviare e domare i suoi capelli tutti onde, boccoli e
riccioli neri, e lo aveva spezzato. Nella
crocchia, crudelmente fissata dalle forcine, di quelle onde non ci sarebbe stato
più nemmeno l'accenno. E però, e però... Pugnalata e rinchiusa, l'infante in
collegio avrebbe lasciato sgorgare l'ondata potente delle parole.
Sia chiaro, i primi appunti sugli anni
dell'educandato si trovano nei diari del
1911, ovvero risalgono all'epoca in cui
Dolores ne era già fuori e frequentava a
Roma la facoltà di magistero. Il racconto
poi, «rizomatico» e «antilineare» come
perfettamente lo qualifica la bravissima
curatrice Elena Frontaloni, inedito e
incompiuto, fu scritto espressamente
come il seguito del libro dell'infanzia,
redatto raccogliendo i ricordi e le numerose annotazioni a partire dal 1979, proseguito per dettatura allorché l'autrice,
dopo la frattura del femore, venne ricoverata nelle cliniche a lunga degenza di
Roma e di Anzio, interrotto dalla morte
sopraggiunta nel luglio del 1983.
Una prima edizione del testo, promossa dal Comune di Treja, stampata da
Scheiwiller nel 1987 e riproposta da
Adelphi nel 1994, fu curata da Giorgio
Zampa che scelse il bel titolo non autorizzato dall'autrice di Le ore per pubblicare il lungo frammento autobiografico
che proseguiva Giù la piazza non c'è
nessuno in mancanza del dattiloscritto
pulito e privo di collezioni approntato
dall'autrice per la stampa. Allora Zampa
si augurava che qualcuno in futuro
avrebbe rinvenuto materiale sufficiente
per rispondere ai numerosi interrogativi
sulla lunghezza effettiva del testo, sulla
scansione dei periodi e delle epoche, sul
punto in cui Dolores Prato aveva sospeso
la narrazione: tutte risposte che oggi,
carte dell'autrice alla mano, ci sa dare
nel prezioso apparato critico del testo
l'attuale curatrice Frontaloni.
Il titolo, Educandato, è proprio quello
voluto da lei, Lola, Dolores, Lolita, che
«già in quel nostro presente», fin dal
tempo in cui portava le trecce serrate a
crocchia dietro la testa, ne assaporava il
gusto dolceamaro: «Educandato, che sa
tanto di grata e di Madame Sévigné»,
scriveva. Tutto quanto allora era costretto — dalle grate, dal corpetto, dalle forcine, dalla clausura — veniva preventivamente dilatato dalle parole che, inventate per dire quel presente, ne timbravano
il futuro e già portavano il marchio autentico della letteratura.
L'erba dei pesci e le farfalle di Gesù, il
brodo di ranocchie e la linea del mare, la
scivolella e il ciauscolo, la sabbia della
clessidra che filava l'eternità e il verde
degli ulivi cangiante come seta. Alle
parole «limpide e profumate» apprese
in paese aveva detto addio. Come «abbonora», che era alzarsi per vedere spalancarsi la luce, per la cottura del pane, per
andare a Loreto su una carrozza a due
cavalli, che era tanto bello perché accadeva di rado mentre lì le alzatacce antelucane erano quotidiane.
Il profumo della «pettinatura in grande» però, quando si grattava e rastrellava la forfora col pettine e poi si strofinava la cute con acqua di colonia, era solo
di lì ed era buonissimo. «Un profumo
riannodabile a niente, profumo mai
ritrovato neppure per somiglianza, un
profumo che era solo odore di sé stesso,
odore di Educandato».