Recensioni / Ritratto portatile di Piergiorgio Bellocchio

Piergiorgio Bellocchio ha passato tutta la vita a Piacenza. Non si è mai spostato. Proprio come William Faulkner dalla sua Oxford, in Mississippi. E potrebbe essere anche suo, in fondo, il celebre telegramma con cui proprio Faulkner, nel 1950, rifiutò l’invito a cena del presidente Truman, alla Casa Bianca, per festeggiare la vittoria del Premio Nobel: «non ha alcun senso prendere un volo per una cena». Stesso temperamento ispido, stessa insofferenza per la retorica e la vanagloria, e, ancor più, stesso fastidio epidermico per il sentirsi esposti, per il parlare in pubblico. Ne ho un ricordo personale. Vidi Piergiorgio Bellocchio una sola volta, a Siena. Ero ancora studente universitario. A Lettere presentavano la ristampa di Ragionamenti: insieme a Luca Lenzini, c’erano Romano Luperini, Delfino Insolera, Renato Solmi e, appunto, Bellocchio. Mi colpì la sua premessa: «non ho abilità oratorie di alcun tipo: quindi leggo il testo che ho scritto». Così, senza preamboli, diretto e secco. La ritrosia, se non il fastidio, rispetto al sentirsi esposto, al parlare in pubblico, era chiarissima. Piergiorgio Bellocchio è stato un intellettuale radicale, introverso e fuori campo. Dalla sua base provinciale – porto sicuro, eppure mai magnificato – ha co-diretto, insieme a Grazia Cherchi, la rivista culturale più importante della Nuova Sinistra italiana: i Quaderni Piacentini. Rivista che, per quasi vent’anni, è stata molto più che un semplice foglio di ricerca, visto che ha contribuito a formare quella nuova comunità – fatta di battitori liberi, intellettuali senza mandato, storici politici e militanti di base – che è stata protagonista di quanto Primo Moroni, Nanni Balestrini e Sergio Bianchi hanno definito «orda d’oro»: vale a dire, dell’assalto al cielo del quindicennio di lotte del lungo ‘68 italiano.
A partire dal «golpe Moro» e dalla conseguente implosione dei movimenti anti-sistemici, l’Italia iniziò però a mutare,esattamente come aveva diagnosticato qualche anno prima l’amato/odiato Pasolini; ma questa volta davvero, nel giro di pochi anni e ad una velocità impressionante. I Quaderni Piacentini nel 1984 chiudono. È ormai scomparso, infatti, intorno alla rivista, quel cosmo politico di cui era stata un attendibile sismografo. Bellocchio però non sa stare senza un progetto editoriale condiviso. Perché non è uno scrittore di libri, ma un saggista. E i saggi – si sa – sono come degli assoli che per suonare al meglio hanno bisogno di uno spazio orchestrato: la rivista, appunto. Ma ogni rivista è sempre un progetto politico: parla di Sé, mentre parla del mondo. Quaderni Piacentini aveva costeggiato una rivoluzione impossibile e, anche per questo, era stata un’esperienza editoriale entusiasmante: aveva coinvolto, in oltre vent’anni di vita, centinaia di collaboratori, un microcosmo sociale dentro un’onda politica vasta, radicale, ingenua e generosa. Nel 1985, però, l’orizzonte è tutt’altro. Per questa ragione, Bellocchio fonda un nuovo progetto editoriale, ma di indirizzo diametralmente opposto: si chiamerà Diario, uscirà per otto anni, senza alcuna regolarità. Uscirà quando deve uscire, senza giustificazioni, né tantomeno programmazione. Una rivista, per di più, fatta in casa, a Piacenza, da due sole persone: lui e Alfonso Berardinelli. Una sorta di scrittura a duetto, quasi una raccolta di Lieder: solo voce e piano. Malinconici, ma inconciliati; sarcastici perché disillusi. Accanto alle due voci, stralci di classici amatissimi: Kierkegaard, Leopardi, Baudelaire, Herzen, Thoreau, Tolstoj, Simone Weil e Orwell. Di fronte, la stupidità implosiva degli anni Ottanta: non solo Craxi, il socialismo della Milano da bere e l’inizio delle invasioni barbariche leghiste. Quanto soprattutto «Repubblica», con il suo club di progressisti a buon mercato; e poi Umberto Eco, metonimia perfetta, per entrambi, di quella nuova sconfortante cultura del ceto medio riflessivo italiano, a metà strada fra esterofilia provinciale e narcisismo stolido. La diagnosi della rivista è implacabile: di quest’amalgama, che si oppone all’acculturazione politica di massa del decennio precedente, la telecrazia berlusconiana è un effetto; non causa.
Per l’insieme di queste ragioni, Diario è stato un progetto editoriale quasi clandestino perché radicalissimo, sprezzante e sulfureo. Basta leggere anche solo come veniva pubblicizzato, per capirne la nota bassa di fondo: «è in edicola il N.4 di Diario. Contiene sempre meno novità, sempre meno notizie, sempre meno argomenti inediti. Come al solito non contiene inchieste né rubriche di moda scienza bellezza cultura. Leggi Diario, ti darà di meno». Se Quaderni Piacentini aveva provato a cavalcare il futuro, scommettendo su analisi tendenziali e su una creatività intellettuale di tipo nuovo, perché posizionata dentro un conflitto politico di massa; Diario, all’opposto, si ritrae dal presente perché tutti i segnali che la cronaca emette sono inquietanti e inequivocabili; è meglio non decrittarli più. A questo proposito c’è un aneddoto significativo, benché malinconico, che Bellocchio riporta in quello strano Zibaldone personale, da poco pubblicato con il titolo Diario del Novecento a cura di Gianni D’Amo. Ricorda di essere andato a trovare Franco Fortini nel 1992, a casa sua, a Milano, qualche mese prima che morisse. Fortini è stato uno dei mentori di Quaderni Piacentini e, soprattutto, un maestro che entrambi, sia Bellocchio che Berardinelli, maltratteranno; e non senza rimorsi. Bellocchio osserva Fortini, che ha quasi ottant’anni e per di più è mezzo moribondo, mentre continua ad ipotizzare scenari nuovi, mosso da una costante ansia patologica per il futuro, perché non può non essere all’altezza del presente, che va sempre aggredito, rincorso: non si può restare indietro. Bellocchio lo guarda, quasi con tenerezza. Lui, il poeta classico della Poesia delle rose, che ha sempre odiato l’avanguardia, gli si rivela, in quell’istante, per quello che è davvero: un puro avanguardista, che continua, nonostante tutto, a giocare a scacchi con il futuro, senza capire che quella partita è, purtroppo per noi, e da mezzo secolo ormai, truccata. Bellocchio scrive: «gli faccio notare che da molto tempo ho smesso di seguire l’attualità. Mi tengo fedele e fermo a vecchi valori e mi comporto come se fossero sempre validi. Invece di fuggire in avanti, come lui insiste a fare, io retrocedo, mi nutro di passato. Gli ricordo il suo Goethe, che si rifiuta di proseguire nella lettura di Hugo, perché vuol difendere il suo modo di sentire naturale: si può per questo giudicarlo retrogrado?». Diario continua in questa cosciente retroversione fino al 1993. Perché l’anacronismo funziona benissimo come reagente di contrasto e il presente, osservato fuori campo, è nitido, benché orrendo. Ma quando ormai nessun anacronismo funziona più perché le previsioni si avverano e nulla più è da scoprire, il gioco si interrompe e la rivista si ferma:

Quello che soprattutto valeva per noi era l’aver scritto, senza riferimenti politici e in solitudine, contro il mito della politica, la nuova classe media universale e lo strapotere delle comunicazioni di massa. Negli anni Novanta avevamo di fronte una situazione che confermava le nostre più pessimistiche intuizioni e avremmo avuto più da ripetere che da scoprire. I due autori concordano nel considerare quegli anni i più liberamente e felicemente produttivi della propria attività letteraria. Scrivendo “Diario”, ci siamo sentiti politicamente impegnati come mai prima.

I libri che Piergiorgio Bellocchio ha iniziato a pubblicare a partire dal volume intitolato Dalla parte del torto (1989) – e ricordiamo almeno: il delizioso Oggetti smarriti (1996); Al di sotto della mischia (2007); Un seme di umanità. Note di Letteratura (2020); e il suo Zibaldone, Diario del Novecento (2022) – sono tutti raccolte di saggi. Alcuni sono già apparsi su Diario, altri scritti per rubriche su giornali – ne ha tenuto una bellissima, tra il 1992 e il 1993, per il supplemento libri dell’«Unità», dove recensisce libri fuori catalogo miracolosamente ritrovati su bancarelle dell’usato – altri ancora sono prefazioni (stupenda quella dedicata al Pasolini politico, nel Meridiano curati da Walter Siti e Silvia de Laude) o introduzioni a libri altrui. Come ogni vero saggista, la sua è una scrittura di servizio, con un tono immediatamente riconoscibile: sarcastico, asciutto, a tratti giocoso, a tratti malinconico e meditabondo. È stato probabilmente una delle ultime incarnazioni novecentesche del modello goethiano dell’intellettuale dilettante. Che ha sempre difeso, contro il falso professionismo dei giornali e delle cattedre che è tanto più intimidatorio, quanto più è inessenziale.

Non ho mai avuto padroni, semmai dei soci. Del resto, anche negli scarsissimi rapporti di collaborazione con altre testate o case editrici, mai avuto un contratto, sempre stato cottimista, pagato a lavoro, a pezzo. Gusto dell’autonomia, non dover rendere conto a nessuno se non alla propria coscienza.

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