Esistono da sempre narrazioni spurie, impasti di
storie che recano le tracce dei protagonisti e delle
loro voci: a questa tradizione si rifà, più o meno
intenzionalmente, anche Civita. Senza aggettivi
e senza altre specificazioni di Giovanni Attili, urbanista e
professore alla Sapienza di Roma. Quasi un’epica urbana,
in bilico tra il saggio e il romanzo di città, Civita riesce a suturare con grazia generi e materiali diversi. Protagonista e
allo stesso tempo palcoscenico della storia è appunto Civita di Bagnoregio, l’iconico borgo del Lazio arroccato su una
roccia che frana: “la città che muore”, secondo una dizione
pubblicitaria fin troppo abusata.
Varie e diverse sono le fasi di vita che ha conosciuto questo
luogo: Attili le ripercorre in tre movimenti.
Dalla sua origine, e per tanti secoli, Civita fu “terra madre e matrigna”, esponendo i suoi abitanti alla precarietà e costringendoli a continui adattamenti per continuare ad abitarla. La lotta
contro un destino di morte che per il piccolo borgo si palesa
fin dalla sua nascita: perché Civita nasce tremando, gemendo,
sgretolandosi. Di fronte a una terra tanto ostile, una comunità altrettanto caparbia si impegna in continue attività per non
soccombere: ricostruzioni di case, consolidamenti della rupe,
tombatura di grotte, sistemazioni di vie e di mura. Non si tratta
solo della manutenzione di un territorio: in questo spirito di resistenza o meglio di “restanza”, si può leggere la capacità di una
comunità di rigenerare l’esistente, di continuare a proiettarsi al
futuro. Un modello culturale che funziona, finché non viene eroso, irrimediabilmente, dal boom economico, che spinge i civitonici a più redditizi impieghi in città e nell’industria.
Arriviamo al secondo atto: pur spopolata, infatti, Civita non
viene abbandonata. Per il borgo si apre, negli anni Settanta,
una nuova stagione: deflagrati i modelli tradizionali, diventa
“terra di adozione” per quanti, venuti da fuori, vi cercano
quiete e silenzio, ma anche un’identità da difendere e rilanciare in una visione progettuale più ampia. Tra questi figli
adottivi, nuovi depositari di pratiche di cura, giganteggia la
figura dell’architetta Astra Zarina, vera e propria dea ex machina chiamata a riscrivere per il borgo un destino segnato.
Professoressa all’università di Seattle, Astra si impegna in un
grande progetto di ripristino del paese, mettendo al servizio
della comunità competenze e relazioni. Ma vuole soprattutto
insegnare un metodo: per questo crea l’Hilltowns Program,
una scuola residenziale di architettura e urbanistica aperta
dal 1976 a giovani studenti americani, ospitati d’estate nelle
case dei civitonici. Quella a cui Astra spinge gli allievi è una
comprensione dall’interno del territorio: attraverso un’interazione diretta con gli abitanti, i ragazzi catturano tecniche,
memorie, tradizioni, integrandole in una visione progettuale,
capace di ricontattare tutti quegli elementi che la modernizzazione aveva distrutto o disperso.
Così si apre un nuovo atto, ed è quello che viviamo tuttora. La
riscoperta del borgo porta infatti con sé la sua graduale estetizzazione, la sua celebrazione in una “forma” congelata: quello
che era il “rudere all’occhiello” di una ristretta elite, diventa la
quinta di uno spettacolo permanente; proprio perché di spettacolo si tratta, per entrare nel borgo si paga oggi un biglietto
di ingresso. Civita si offre così come puro oggetto estetico a
un turismo logorante e cannibale. Il borgo non ha più nessun
vincolo col passato: l’unica coerenza che gli si chiede è quella di
conformarsi all’immaginario turistico: al suo desiderio di autenticità, di pittoresco, persino al suo bisogno di un’oleografia di
morte, che Civita incarna, il più possibile distillata e mansueta.
Fin qui la parabola storica. Tuttavia l’idea di Attili non è cercare una sintesi, ma tentare un possibile attraversamento
estetico e politico nella vita del borgo perché assurga a una
vicenda esemplare. Vi riesce attraverso una scrittura che
per l’occasione si fa ibrida, porosa, intersezionale, capace di
assorbire una forte dimensione narrativa. La sua postura di
fronte all’immensa messe di carte che riesce a riacciuffare è
mobile e inquieta, “affettiva”: a tratti disarmata rispetto a un
luogo che è prima di tutto un oggetto d’amore. Il racconto
non ha nulla dell’asepsi che affligge lo storico di professione:
è piuttosto quello di un corpo in movimento, continuamente
sollecitato, che si muove in uno spazio e lo abita da vivo. Mai
da solo, però, ma come componente di una comunità, frammentata ma comunque tangibile, a nome della quale Attili si
intesta la responsabilità di un capovolgimento.
Se è vero, come scriveva Wu Ming a proposito del frammento n. 991 di Borges, che “la narrazione è la prosecuzione della lotta con altri mezzi”, allora anche per Civita si
dovrà provare a “riscrivere la fine”, liberando nuove forme
di immaginazione oltre l’apocalisse culturale. Nasce così Civitonia, il festival di artiste e artisti, di cui Attili è codirettore
artistico, riuniti a “prefigurare per Civita altre possibilità di
futuro”. “Gesti, scritture, performance, riti, incantesimi, installazioni, visioni capaci di fertilizzare paesaggi ormai atrofizzati”, come recita il sito https://civitonia.com/.
Non solo resistenza o denuncia, quindi: piuttosto una forma di coscienza aumentata. Prima edizione a ottobre 2022,
molti i nomi coinvolti: ma la magia, ci promettono, continua.
Spetterà forse all’arte sovvertire un destino e immaginare,
Civita, quale “terra” sarà.