Recensioni / Aprire gli occhi sull’«accordo interspecifico». Uomini e macchine al lavoro nella fotografia di William Guerrieri

Da molti anni William Guerrieri lavora con la fotografia per raccontare e comprendere attraverso le immagini le trasformazioni del lavoro e del paesaggio che dal lavoro stesso è modificato. Si pensi alle fotografie raccolte in volumi come The Dairy. Images for the Italian countryside (2015), New lands (2017), così come nel presente Bodies and machine at work. Esiste ed è assai radicato un senso comune che riguarda gli immaginari collettivi dei paesaggi e del lavoro, Guerrieri attraverso un approfondito studio che si condensa nelle immagini fotografiche mette in discussione questi stereotipi visivi che a loro volta portano con sé pregiudizi di carattere sociale e politico.
In The Dairy Guerrieri ha puntato il proprio sguardo su un caseificio dove per decenni si è prodotto il Parmigiano Reggiano costruendo delle sequenze composte di foto e documenti che testimoniano della florida attività che in esso si è svolta e di immagini del caseificio ormai abbandonato nella campagna; anche il paesaggio che circonda il caseificio è mutato rispetto agli anni in cui l’attività lavorativa era florida. Le immagini si soffermano sugli spazi e sugli strumenti dei casari fermi da anni, l’ufficio con la scrivania e l’elenco telefonico abbandonato, delle sottili crepe sulla parete e la stampa di un veliero appeso, poi ci spostiamo in un altro locale e Guerrieri ci mostra un vecchio quadro elettrico, poi scatoloni ricolmi di documenti e carte spinti in un angolo sotto la finestra. La campagna che circonda il caseificio è radicalmente diversa rispetto all’immagine da cartolina del paesaggio padano cui siamo abituati: accanto a sterminati campi coltivati, scopriamo grossi cantieri di anonime villette, lunghe cancellate zincate, un mucchio di detriti abbandonati ai piedi di un albero, un uomo in solitudine che percorre una strada di campagna su un paio di sci a rotelle tanto che ci domandiamo: dove sono state scattate queste foto? Nelle sterminate campagne degli Stati Uniti, oppure in qualche regione pianeggiante d’Europa? Indecidibile. Nelle immagini che descrivono la storia di un caseificio osserviamo come il lavoro in questa terra si sia trasformato: chiusura dell’attività dei piccoli produttori e concentrazione della produzione in pochi grandi caseifici. Le immagini del caseificio prese da Guerrieri compongono un microcosmo mediante cui si smontano gli stereotipi visivi sul paesaggio, primo fra tutti la dimensione bucolica della campagna padana, che appare sempre più invasa da strutture architettoniche anonime che cancellano ogni tipo di rapporto con la storia passata e consentono all’osservatore di orientarsi nel luogo, solo a fatica. Attraverso questa analisi visiva del paesaggio Guerrieri ci consente anche di accedere alle trasformazioni e alle contraddizioni – spesso non percepite e non comprese – del lavoro. Le sequenze fotografiche di Guerrieri riportano allo sguardo una dimensione dialettica che viene cancellata dall’immaginario main stream sul paesaggio e sul lavoro.

In questo ultimo libro Bodies and machine at work Guerrieri è entrato all’interno di altri luoghi, i luoghi del lavoro ipertecnologici e altamente informatizzati: aziende di grande specializzazione del territorio emiliano in cui la professionalità degli operatori umani entra in relazione con macchine che compiono attività estremamente raffinate e a loro volta sono in rapporto con l’intelligenza artificiale.
Ernst Jünger nelle pagine di Sul dolore (1934), riflettendo sulle mutazioni del lavoro a livello planetario osservava che: «Non solo noi lavoriamo con organi artificiali più di qualunque altra epoca precedente, ma stiamo anche edificando nuovi e strani domini in cui l’uso di organi di senso artificiali finisce per creare un alto grado di accordo intraspecifico».[1] Quasi un secolo fa Jünger riusciva a cogliere come il lavoro fosse caratterizzato da un impiego sempre maggiore di strumenti e come questo spingesse verso un «accordo intraspecifico», una compenetrazione tra organico e inorganico, tra essere umano e macchina, quei bodies e quelle machines appunto richiamate nel titolo del presente volume. Jünger non solo cerca di descrivere e comprendere il lavoro sul piano teorico, ma cerca di farlo anche attraverso le immagini fotografiche che sono raccolte ne Il mondo mutato. Un sillabario per immagini del nostro tempo (1933) di cui alcuni capitoli sono incentrati proprio sulla mobilitazione planetaria sotto il segno del lavoro e sulle modificazioni dell’esistenza dei singoli e delle collettività.

Guerrieri con le sue immagini porta alla visibilità un aspetto di quell’«accordo intraspecifico» tra uomini e macchine, tra l’intelligenza umana e la cosiddetta intelligenza artificiale che già a Jünger appariva come centrale negli anni Trenta. Quello che Guerrieri con le sue immagini ci permette di vedere – e come richiama in diversi passaggi del suo saggio – è che nei luoghi di lavoro non si tratta solo di rapporti tra intelligenze “naturali” e intelligenze “artificiali” si tratta ancora di rapporti tra corpi e macchine, si tratta ancora di fatica di occhi e di muscoli, si tratta ancora di posture e di gesti. Il senso comune più diffuso parla del lavoro contemporaneo tecnologizzato e informatizzato come di un lavoro smaterializzato fatto solo di intelligenze, come se la tecnologia nel lavoro comportasse una diretta rimozione della fatica fisica. In ogni caso si parte dal presupposto che i nostri lavori costituirebbero un indubbio “progresso” in termini di sfruttamento e dolore rispetto al passato. Ma è proprio così?

Nello scritto di che accompagna le fotografie, Guerrieri ricorda opportunamente l’opera di Allan Sekula – la cui sintesi della ricerca sul lavoro è visibile nel film The forgotten space (2010) – in cui si porta alla luce con le immagini come la logistica hard dei container via mare sia oggi uno degli elementi fondamentali su cui si regge il capitalismo neoliberista a dispetto della sua autorappresentazione soft. Un’ideale completamento in questa direzione è rappresentato dalla ricerca – svolta anche attraverso le immagini – di Nicole Starosielski The undersea network (2015) in cui si mostra il lato letteralmente sommerso della odierna comunicazione wireless che al 99 per cento – per quel che riguarda le comunicazioni intercontinentali – è resa possibile da una immensa rete sottomarina di cavi in fibra ottica che consente il passaggio delle informazioni di ogni forma di comunicazione digitale, dalle chiamate telefoniche alle e-mail, fino al trasferimento di ogni tipo di immagini video. Ma si pensi anche a Workingman’s death (2005) di Michael Glawogger dove le immagini riprendono ciò che non viene mai osservato, ovvero come il lavoro nel XXI secolo continui a esporre sistematicamente al pericolo di morte milioni di lavoratori in tutto il mondo. Il lavoro “intelligente” e “smaterializzato” ha bisogno di corpi e di materia anche se questi corpi e questa materia sono per lo più rimossi dalla rappresentazione del lavoro, da un lato attraverso lo spostamento dei lavori più sporchi nei paesi più sfruttati del pianeta, dall’altro attraverso la produzione di un immaginario che rimuova dalla visibilità l’estraniazione e il dolore cui siamo esposti nelle nostre attività lavorative. L’ideologia del “progresso” è uno dei fulcri intorno a cui ruota questa rappresentazione del lavoro.

Negli anni Trenta Walter Benjamin osserva come fascisti e socialdemocratici condividano la stessa infatuazione per la locomotiva del progresso, un vero e proprio culto religioso contemporaneo i cui adepti ripetono un mantra che recita più o meno così: «Poveri e ricchi, siamo tutti a bordo dello stesso treno, pertanto collaboriamo tutti insieme perché la locomotiva vada ancora più veloce verso la meta». Ma quale sarebbe la meta? E questa meta è la stessa per chi beve champagne nella carrozza ristorante così come per quelli che si dannano l’anima per un tozzo di pane guadagnato buttando carbone nella pancia della locomotiva? Agli occhi di Benjamin l’inebriamento per il progresso appare come una delle forme più estranianti dell’ideologia contemporanea e quindi come uno degli impedimenti maggiori per una effettiva emancipazione degli sfruttati, la cui unica chance risiede piuttosto nel riuscire a tirare il «freno di emergenza» di quel treno su cui noi tutti ancora oggi stiamo viaggiando.

Si comprende che dietro le immagini di Guerrieri vi sia un profondo studio sia teorico, sia visivo di ciò che intende documentare con le proprie immagini. In questo caso Guerrieri è entrato in alcune delle aziende ad alto contenuto tecnologico dell’Emilia; le sue immagini fissano occhi davanti ai computer, volti riflessi sulle superfici degli schermi, ma anche dita sulle tastiere, mani che stringono pezzi meccanici, braccia che si aggrappano a ganci, piedi che escono dalle scarpe in cerca di riposo. E ancora architetture levigate, quasi impalpabili di strumenti elettronici a cui sembrano contrapporsi cassoni di metallo ammaccati o a grovigli di cavi. Le fotografie di questi luoghi di lavoro non descrivono l’emancipazione dell’uomo dalla fatica mediante il progresso tecnologico, quanto piuttosto costruiscono una fenomenologia delle forme assunte oggi da quell’«accordo intraspecifico» di cui parlava Jünger negli anni Trenta, le quali si impongono come un sempre più estensivo ed intensivo processo di intrusione del lavoro nell’esistenza dell’uomo.

Negli anni Sessanta Jünger torna a ragionare sul lavoro, cercando di capire se l’interpretazione sviluppata alcuni decenni prima nelle pagine di L’operaio. Dominio e forma fondata sull’idea che il lavoro fosse da intendersi non nei termini di semplice «attività tecnica» ma quale «totalità dell’esistenza» che «è in atto anche nei sistemi della scienza». Nelle pagine di Maxima-minima. Annotazioni a l’Operaio Jünger osserva: «La giornata lavorativa conta ventiquattro ore; rispetto a questo la distinzione tra tempo del lavoro e tempo libero diventa secondaria. Quando lascia il posto di lavoro l’essere umano accede a un’altra funzione del sistema trasformandosi di volta in volta in consumatore, in utente della rete di trasporto o in fruitore di informazioni. Che egli si muova nella rete delle strade terrestri, marine o aeree o nel cerchio magico dei giochi elettronici, resta sempre nel sistema». Per Jünger, non solo il lavoro riguarda i corpi, ma estende la propria portata in ogni altro ambito della esistenza umana, erodendo lo spazio del non-lavoro. Come scrive in un altro testo degli anni Cinquanta – secondo una prospettiva storico-morfologica – è come se l’organizzazione planetaria del lavoro dopo essersi dotata di uno scheletro e di muscoli nella prima rivoluzione industriale ora si stesse dotando di nervi e di organi di senso.

Guy Debord fissa questa esondazione del lavoro dai propri argini quando riesce a descrivere le caratteristiche del «capitalismo spettacolare» nei termini di una pseudoliberazione dal lavoro: «Per la riuscita stessa della produzione separata in quanto produzione del separato, l’esperienza fondamentale, nelle società primitive legata a un lavoro principale, si sposta oggi, al polo di sviluppo del sistema, verso il non-lavoro, l’inattività. Ma questa inattività non è per nulla liberata dall’attività produttiva: al contrario dipende da essa, è sottomis¬sione inquieta e ammirativa alle necessità e ai risultati della produzione; è essa stessa un prodotto della sua razionalità. Non può esserci libertà fuori dell’attività, e nel quadro dello spettacolo ogni attività è negata, esattamente come l’attività reale è stata captata integralmente per l’edificazione globale di questo risultato. Così l’attuale “liberazione del lavoro”, l’aumento degli svaghi, non è in alcun modo liberazione nel la¬voro, né liberazione da un mondo modellato da questo lavoro. Nulla dell’attività estorta nel lavoro può ritrovarsi nella sottomis¬sione al suo risultato». In questa cornice la digitalizzazione – dai codici a barre alle immagini condivise sui social network – costituisce un’ulteriore estensione e un’ulteriore intensificazione rispetto a quanto descritto da Jünger e da Debord in merito all’intrusione del lavoro – e del capitalismo –nell’esistenza.

In effetti in molte delle immagini di Guerrieri la postura, le espressioni e gli sguardi di questi uomini al lavoro non si distinguono da chi davanti allo stesso schermo sta giocando o comunicando. Questa ambiguità dello sguardo fissata da Guerrieri è la stessa suscitata dai volti dei giovani soldati nei centri di addestramento dell’esercito degli Stati Fort Lewis e Twentynine Palms ripresi da Harun Farocki nella videoinstallazione Serious games (2009-2010): vediamo i soldati “al lavoro” davanti a videogame con i quali devono preparasi a fare la guerra. Il limite tra lavoro e gioco è stato oltrepassato. La mutazione del lavoro pare essere stata in grado di assorbire ogni ultima resistenza del gioco.

Le fotografie di Guerrieri raccolte in questo volume ci risvegliano rispetto alle ideologiche rappresentazioni neoliberiste del lavoro e ci mostrano che la dimensione del lavoro e di ciò che dovrebbe essere non-lavoro si confondono, anzi che nell’«accordo intraspecifico» tra essere umano e macchina assistiamo a un ampliarsi del sistema del lavoro che finisce con il rendere compatibile, funzionale, o identico al lavoro stesso ogni altra attività che dovrebbe configurarsi come attività di non-lavoro. La meccanizzazione e l’informatizzazione del lavoro non costituiscono un’immediata e diretta emancipazione dell’uomo dalla fatica e dallo sfruttamento, ma anzi un fenomeno come quello della gamification e la diffusione della logica del prosumer sono modalità mediante cui la dimensione lavorativa viene resa invisibile e impercettibile allo sguardo. Con le immagini fotografiche William Guerrieri restituisce al nostro sguardo la possibilità di aprire gli occhi su alcune nuove forme di estraniazione connesse al lavoro, sul modo in cui esse si innestano nelle nuove tecnologie. Alla fotografia Guerrieri affida il ruolo di comprensione attraverso lo sguardo. Con le sue immagini Guerrieri ci riporta alla domanda fondamentale – ma sistematicamente elusa – che concerne il rapporto tra uomo e tecnica, un rapporto che viene praticato come dominio e sfruttamento dell’uomo sulla natura e dell’uomo sull’uomo, mentre suggeriva Walter Benjamin potrebbe essere vissuto altrimenti, perfino come il «corteggiamento del cosmo» da parte dell’uomo.