E se la letteratura, la
vera letteratura, stesse nelle
pieghe delle cose, nelle zone
opache perché scontate, negli
spostamenti minimi di un
occhio sul piano di una scrivania?
E se fosse vera proprio
perché, rifuggendo da quell'eccezionale
che pretendiamo
dalle narrazioni, si dedicasse
alla sovrabbondante
mediocrità di cui sono fatte
tutte le vite?
Fa un certo effetto - una
sensazione di sollievo - leggere
il curioso libretto che
nel 1989, a sette anni dalla sua
morte, raccolse gli scritti di
Georges Perec dedicati a tutto
ciò che è "infra-ordinario"
(è questo il titolo dell'opera
che Quodlibet ripropone nella
traduzione di Roberta Delbono),
ovvero a tutto quello
che appartiene alla successione
banale delle ore di un
essere vivente, al loro «rumore
di fondo».
Perec quelle pagine le aveva
scritte perlopiù nel decennio
precedente, quando era
diventato uno degli scrittori
francesi più apprezzati non
solo in patria, con estimatori
anche in Italia, dove, seppur
con un certo ritardo, si tradussero
i suoi capolavori, su
tutti "La vita istruzioni per
l'uso" (1978).
Duplice effetto
Leggere oggi Perec produce
un duplice effetto. Il primo
rimanda al sapore di un'epoca,
in cui ci si azzardava a percorrere
strade che pochi avevano
avuto il coraggio di imboccare:
Perec è tra i fondatori
dell'OuLiPo, sostenitore
di una scrittura fissata su rigorosi
vincoli artificiali. E,
non proprio inaspettatamente,
quel sapore ha in sé qualcosa
di antico, di fatalmente
superato, si direbbe di morto.
Il secondo effetto invece è
quasi opposto. A rileggerlo (a
ben pensarci Perec è uno
scrittore che si rilegge sempre pur se lo si legge per la prima volta) è come se suggerisse
di andare ad aprire
quella finestra che pensavi
fosse solo dipinta sulla parete.
Perec - anche quando è genialmente
insulso, anche
quando paradossalmente
non lo puoi leggere (come è
evidente in alcune pagine di
"'Infra-ordinario") - fa letteratura,
se questo vuol dire
posizionare uno sguardo sul
mondo così originale da far
sembrare tutto nuovo, ritagliare
fette di vita combinandole
con criteri tanto assurdi
da parere logici, scombussolare
prospettive ingurgitando
realtà per produrre finzione.
In tal senso il primo testo
del libro "Approcci di cosa?",
di per sè, sarebbe da mandare
a memoria per quanto Perec
riesce a dire con disincanto e
leggerezza, senza mai dare
l'impressione di esagerare
pur scrivendo cose evidentemente
così esatte da essere
altrettanto evidentemente
esagerate.
Interrogare l'abituale
Di cosa bisogna scrivere, si
chiede Perec? Non di quello
di cui si occupano i giornali,
che «parlano di tutto, tranne
che del giornaliero». Non di
quello - Perec non lo scrive
ma è facile intuirlo - di cui
parlano i libri. Ma, all'opposto,
bisognerebbe affrontare
quello che «succede veramente
»: «interrogare l'abituale
». Ed è qui che si mostrano
le difficoltà, perché l'abituale
- ovvero il liquido in cui
trascorriamo la nostra vita, o,
anche, il recinto che ci contiene
- «non ci sembra costituire
un problema» e allora
«non lo interroghiamo, non
ci interroga». Che si richiede
quindi ad uno scrittore? Innanzitutto
di risvegliare gli
anestetizzati: «Dormiamo la
nostra vita di un sonno senza
sogni. Ma dov'è la nostra vita?
Dov'è il nostro corpo? Dov'è il nostro spazio?». In simili
condizioni lo scrittore, sulle
prime, deve assomigliare a
un cacciatore: le «cose comuni
» sono le prede da braccare
e da stanare. E poi, una volta
messe nel sacco, deve trattarle
con la cautela di un restauratore,
«liberandole dalle
scorie nelle quali restano invischiate». Solo alla fine lo
scrittore deve tornare a fare
se stesso, perché, «novello
Adamo», è chiamato a dare
un nome alle «cose comuni»,
cioè a «dar loro un senso, una
lingua: che possano finalmente
parlare di quello che è,
di quel che siamo».
Perec sa che tutto è questione
di sguardo: cambiare
vuol dire aprire gli occhi su
quello che non si vede perché
è troppo in vista. La nuova
letteratura richiede una nuova
e propria antropologia,
«che andrà cercando dentro
di noi quello che abbiamo rubato
così a lungo agli altri». E
allora scrivere significa riprendere
contatto con «ciò
che sembra aver smesso per
sempre di stupirci»: «i mattoni,
il cemento, il vetro, le nostre
maniere a tavola, i nostri
utensili, i nostri strumenti, i
nostri orari, i nostri ritmi».
Una rivoluzione
Come si diceva, una rivoluzione.
Fatta così, col sorriso
sulle labbra, giocando con i
tasselli del reale, rimettendoli
in vista e ricombinandoli
nel modo giusto o scorretto
(chi l'ha detto che si debba rimontare
tutto esattamente
com'era?). E questo il presupposto
che conduce Perec a
descrivere i luoghi, i numeri
civici, le insegne di rue Vilin,
la via di Parigi dove ha abitato
da bambino; a raccontare i
messaggi, ognuno di cinque
frasi, che, come recita il titolo
del testo, stanno su «Duecentoquarantatré
cartoline illustrate
a colori autentici»; o
ancora, ad elencare tutto ciò
che ha mangiato nel corso.