Recensioni / Nel rumore di fondo, Perec

A partire dalla metà del XIX secolo, con i grandi cantieri inaugurati dal Secondo Impero, la città di Parigi, capitale della modernità, si fa teatro di un nuovo pensiero dell’esplorazione urbana: un certo modo di guardarsi attorno che trova nel flâneur baudelairiano il suo araldo, e che attraverso l’avanguardia dada-surrealista e il Passagenwerk di Benjamin arriva fino a Debord e alla deriva psico-geografica dei situazionisti.
Immergendosi nella fantasmagoria di stimoli sensoriali prodotti dalla città che cambia, con i suoi boulevards sempre più trafficati e i suoi cantieri, questa strana famiglia di etnografi del marciapiede coglie in presa diretta le origini di quel processo di anestesia dello sguardo, di impoverimento percettivo che, ieri come oggi, sembra connotare fatalmente l’esperienza di vita metropolitana. Da qui, la ricerca di isole d’inconscio ai margini (o nel cuore) del tracciato apparentemente razionale della città; il culto per l’aura numinosa sprigionata dai primi fossili dell’epoca moderna, in vendita per due soldi sui banchi dei marchés aux puces; l’invocazione di epifanie magiche intraviste poi perdute per sempre tra le nebbie notturne dei quais.
Georges Perec si inserisce in questa tradizione squisitamente parigina svuotandola dall’interno: o meglio, rovesciandola di segno. In una certa sezione della sua opera – in cui rientra anche la raccolta postuma di scritti su L’infra-ordinario (1989), ripubblicata ora da Quodlibet a trent’anni dalla prima edizione italiana –, l’autore del romanzo-puzzle La vita istruzioni per l’uso (1978) ha infatti ripensato in autonomia una poetica dello straniamento dove l’esotismo di marca surrealista risulta frustrato e, appunto, come ribaltato nel fascino di ciò che lo stesso Perec ribattezza l’endotico: non un viaggio avventuroso nei margini (sociologici, culturali, antropologici) alla ricerca del magico e del meraviglioso, ma una lenta osservazione dei minimi risvolti di ciò che, con evidente gusto nomenclatorio, possiamo definire per approssimazione “il banale, il quotidiano, l’evidente, il comune, l’ordinario, l’infra-ordinario, il rumore di fondo, l’abituale” (così nel programmatico Approcci di cosa? che apre il libretto), e che alla fine è semplicemente la qualità dominante dell’esistenza di ogni individuo cresciuto a partire dalla metà del secolo scorso.
Parte dei pezzi raccolti ne L’infra-ordinario, già pubblicati in rivista fra il ’73 e il ’81, rientra in un più vasto progetto di descrizione di luoghi cittadini che ha il suo retroterra immaginativo in Specie di spazi (1974) e la sua espressione più radicale nel Tentativo di esaurimento di un luogo parigino (1975), esperimento-limite che riporta un’elencazione quasi ossessiva di tutto ciò che, durante tre giornate consecutive, passa sotto gli occhi dell’autore, seduto ai tavolini dei bistrot di place Sant-Sulpice. Il “battito cardiaco” (Cavicchioli) di un posto qualunque, immortalato in un momento qualunque della propria esistenza. Ma ciò che resta impigliato sulla pagina, l’oggetto della descrizione, la cosa nominata, non è mai “qualunque”: non più, almeno – del resto, lo sguardo fenomenologico di Perec sembra mettere in discussione l’idea (un’idea reçue, come si dice Oltralpe) che lo stesso esserci di ciò che è, pur nella sua casualità, possa davvero dirsi “qualunque”. In questi estenuanti elenchi di segni del paesaggio urbano, la cartografia iperrealista del visibile contempla infatti effetti collaterali di reincantamento, scavando nel tran-tran solitamente impercepito dell’esistenza un angolo di ritrovato stupore per quel poco che succede nella vita di tutti i giorni – e che però, inspiegabilmente, succede: ed è “la familiarità ritrovata, lo spazio fraterno”, come si legge in Specie di spazi.
Scorrendo le enumerazioni di Perec, si capisce come la descrizione compulsiva diventi essa stessa, nella sua pretesa simultaneità di percezione e rappresentazione, indice del mondo esterno, e quasi suo simulacro alfabetico che sopravvive allo scialo dei referenti: molte delle cose inventariate per sempre nei tentativi di esaurimento perecchiani, per dire, oggi non esistono più (un volo di piccioni tra gli zampilli della fontana, uno scambio di battute colte di passaggio, la facciata murata di un vecchio edificio), se non nella modesta rete di segni che ne attesta il passaggio sulla terra e le strappa alla frana del tempo.
Lo stesso spazio del foglio, chiuso dai suoi quattro margini rassicuranti (perché arginano, alla lettera, la proliferazione dell’indeterminato), è il centro simbolico della pratica descrittivo-elencatoria di Perec, che nell’accumulo progressivo di note, in quella specie di gesto verbale puro che è la nominazione, offre una messinscena iconica del passaggio del mondo e della sua percezione frammentaria da parte del soggetto. L’utopia piccola e tragica di qualcosa che non è più manco letteratura, ma scrizione: offrire una garanzia di esistenza (al mondo, a te che lo guardi) nel formato di una pagina di taccuino; eternare in parole straordinarie – perché scritte e sottratte all’oblio, donde la loro strana evidenza poetica – lo spettacolo insignificante della realtà. La nominazione come linguaggio d’elezione dell’infraordinario.
Nondimeno, nel suo esaurimento mai compiuto del rasoterra quotidiano, ecco che l’etnografia perecchiana, dietro le apparenze lievi, lascia tralucere il barbaglio di ricordi personali inabissati, respinti. È la “fobia del dimenticare”, come la chiamerà lo stesso Perec, a sostenere l’universo tutto pieno della sua pagina, che in questo senso si legge anche come una specie di cura per provare a colmare il vuoto della storia: non quella con la S, ma quella della propria famiglia.
Il pezzo più bello fra quelli raccolti ne L’infra-ordinario si intitola La rue Vilin (1977), e raccoglie gli appunti di una serie di incursioni, condotte fra il ’69 e il ’75, nella via in cui Perec ha trascorso i suoi primi anni di vita, segnati dalla scomparsa di entrambi i genitori nel buco nero della Shoah.
Così, nel lungo inventario di negozi chiusi, casette fatiscenti, civici di incerto uso segnati con un ? da chi scrive, nel muto spopolarsi di un antico viottolo di Belleville dove la vita trascorre con la dignità indolente degli intonaci scrostati, si insinuano presto le tracce di un’esistenza familiare spezzata, il cui ricordo affiora come un lapsus nel paesaggio: il riconoscimento, tra parentesi, della casa in cui si è cresciuti; il vecchio negozio della madre, con la porta murata e la scritta COIFFURE DAMES quasi cancellata dal tempo; la via stessa che, come un segno premonitore, con il suo angolo di circa 30 gradi assume l’aspetto di “una S molto allungata (come nella sigla SS)”.
Schegge di vissuto dolorosamente conficcate nella descrizione del tessuto urbano, a ricordare come il quotidiano dei luoghi, l’infraordinarietà che i più non percepiscono sia fatta anche di questo intreccio di ferite private e di fantasmi collettivi. È, anche questa, un’ovvietà: serviva uno come Perec per darle l’evidenza delle verità ultime.
In questo senso, guardare quelle vanitas tipografiche che sono le sue descrizioni ha il valore di un umile esercizio spirituale: accogliere il destino di “esaurimento” che attende il mondo, sapendo che niente di ciò che è scritto – nell’occhio, nella pagina, nella memoria del mondo – è davvero perduto.

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