Recensioni / Scialoja, miei quadri, mie scoperte

Giornale di pittura 1954-1964 , ora finalmente libro completo, anche dei ‘fogli sparsi’ (con una prefazione di A. Colasanti, a cura di M. De Vivo, L. Iamurri, O. Nuzzolese, A. Rorro, Quodlibet, pp. XXII + 634, euro 42,00), dopo tanti assaggi in cataloghi e riviste e una prima selezione nel 1991 per gli Editori Riuniti, dedicato a Gabriella Drudi «che questa pittura ha riempito insieme a Toti», permette di constatare come avviene la crescita del quadro in Scialoja e, soprattutto, la tensione interiore o grande gioia di esistere che la sostiene, la volontà di assoluto che la muove.
L’impegno psicofisico affrontato nella preparazione e nella messa a fuoco dell’opera, analizzato in 593 pagine, di cui 396 dedicate di proposito agli anni cinquanta, non è mai scemato in Scialoja, proprio per quel rapporto evidente che c’è tra il pittore e il critico. Perché se c’è un pittore, nella storia dell’arte italiana di buona metà del XX secolo, che si affida a una rete di pensieri, un pittore nella scia della tradizione rinascimentale, quindi pensatore, moralista, poeta, questi è Scialoja. Anzi, tra gli artisti della sua generazione, Scialoja è l’unico ad aver fatto del pensiero critico un mezzo di creatività. Basta leggere le pagine che tra il 1944 e il 1948 scrive per «Mercurio» e quindi per «L’Immagine», i commenti sotto le riproduzioni a colori nel catalogo che accompagna la mostra antologica del 1991 alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna, o averlo sentito parlare di spazio, di colore, di luce, di ritmo, di realtà, per avvertire chiaramente quanto il pensiero fatto parola abbia nutrito la pittura, si sia posto come struttura e metodo della pittura, proprio sull’esempio di Leonardo: La pittura è cosa mentale. La stessa poesia, che negli ultimi anni della sua vita incontrò quella fortuna toccata in parte alla pittura, è suono pensante, armonia, musica, un insieme di sonorità che chi ha visto Scialoja dipingere può meglio comprendere nella sua complessità spaziale, gestuale, segnica.
I suoi pensieri, come i suoi dipinti, sono agganciati gli uni agli altri, come coppie comunicanti in cui conoscenza e felicità sono connesse, anche quel tanto di turbamento emotivo che la parola non può sciogliere ma che, nonostante tutto, continua a fissarsi sulla carta con sorprendente freschezza, la ripetizione come momento attivo del tempo, avida e straordinariamente acuta nell’interrogazione del mondo e di se stessi, nella continua allusione a un universo perduto ma recuperabile, e sempre per far penetrare nei nostri sensi tutto ciò che non ha cessato di nominare, alla ricerca di quel tipo di approccio – la semplicità e l’essenzialità – e non di un altro, alla sua opera.
Ecco, allora, l’apertura del Giornale di pittura , nel 1954: «Dipingere è divenuto per me quel che doveva essere per i pittori antichi: semplicemente un modo di ‘imitare per amore’. Imito la mia natura, cioè la mia cultura (quella che amo), e insieme la mia sensazione di esistere (trasformo la sensazione in certezza)». E più avanti, nel 1956: «I miei quadri non sono un’autobiografia, sono le mie scoperte», «L’opera d’arte non è che la testimonianza di un processo verso l’universale, o l’unicità dell’infinito», «Il quadro non come oggetto in se stesso finito ma come specchio e storia del metodo di lavoro, del meccanismo di tale azione e intervento spirituale, la pittura nel suo processo, nel suo farsi, nei modi del suo divenire e attuarsi. Il pittore oggi si consegna nell’opera attraverso la tecnica del suo fare, non attraverso una finale soluzione del suo essere». E nel 1958: «Pittura non è scrittura, ma registrazione. Non è nemmeno registrazione, ma visione. L’essenza fossile della visione si scioglie come cera sanguigna al colore corporeo della nostra intenzione», subito confermata nel 1959: «La mia pittura tende non ad una immagine ma ad una visione». E nel 1961, parafrasando Merleau-Ponty: «La pittura non è una certa espressione, ma è la vigilanza che non ci permette di dimenticare la sorgente di ogni espressione».
È la molteplicità della Scuola di New York, soprattutto di Pollock, Gorky e De Kooning, del quadro ricco di varianti, in una eterna crescita oltre i limiti del telaio, in una continua provocazione dell’uomo che aspira a essere integralmente nella sua opera, che nell’opera vuole rintracciare le soluzioni dei problemi esistenziali. La pittura americana, oltre tutto questo, è la sintesi estrema della pittura europea, anche di quella parte nascosta per motivi ideologici, è l’emblema di una libertà che da Cézanne a Matisse, da Picasso a Kandinskij, ha nutrito buona parte delle ricerche espressive del XX secolo. «Confrontati con la realtà e gettati nel mare. Il mare è l’ispirazione», scrive Pollock. Con la tela per terra, Scialoja è nel mare, si sente più vicino al quadro, più coinvolto, gli gira tutt’intorno, lavora da ogni lato, in contrappunto, per strati successivi, come elementi di un rito, immedesimato nelle tre dimensioni senza perdere la natura piatta del suolo.
Ogni esigenza richiede nuove tecniche e nel Giornale di pittura Scialoja ne dà minuziosamente conto, sottolineando il fatto di non essere mai obbligato a cercare un soggetto al di fuori di se stesso. Spazio e tempo per esprimere un mondo interiore, l’energia, il movimento, la dolcezza, e altre forze in azione. A guardare le sue opere, dalla prima alle ultime, è uno stesso spirito unificatore a fondere supporti, materiali e metodo di lavoro per mettersi di fronte a una concezione visiva che nasce dalla fede nell’unità dei fenomeni che ci circondano e esprime pulsioni apparentemente contraddittorie, un gusto di attraversamento del passato unito a una tenace affermazione della vita.
Vuoto e pieno, azione e inerzia, si trasformano e si fondono nell’energia che li anima e che è il loro denominatore comune. Prive di allusioni immediate, associando forza e sensibilità, vorrei dire pathos, forme e immagini si dissolvono e si riordinano in nuovi organismi. Ogni opera è uno stato dell’essere, è una concezione più vitale dello spazio, è l’espressione di un ritmo fisico, il segno di una libertà e di una passione che sfuggono alla sua storia e alla sua cultura: sono un modo di vivere.
Scialoja ha dipinto e scritto ciò che è, sviluppando di continuo gli stessi temi e le stesse ossessioni, con l’immediatezza del disegno e un impalpabile lirismo, sensibile sempre al ritmo, quel ritmo tormentato che gli farà scoprire quanto e come l’eliminazione della figura umana, nei primi anni cinquanta, fosse già un’immagine, o un concatenamento dinamico dell’immagine, un centro coagulante e attivo, l’insieme di una unità cosmogonica in costante espansione, una realtà vivente e autonoma, un continuum che supera le dimensioni fisiche dell’opera. Perciò, le pagine del suo «giornale» rifiutano il discorso mezzo scientifico e mezzo filosofico e cercano sempre e solo una via: la propria. La scelta di Scialoja è una scelta morale precisa, così certe sue sentenze, certi brevi apologhi illuminano più di un trattato e ogni pagina, con misura e serenità, con un senso quasi mistico e una fede cieca nell’astrazione, ha l’efficacia di una liberazione, di un convincimento, di fiducia nei valori che non mutano, quei valori che lo hanno aiutato a resistere nei lunghi anni di storture e di veleni, di solitudine e di silenzio. «La pittura è avanti tutti l’immagine concreta di un’idea, di una posizione morale, una situazione di pensiero sul mondo». Un’idea alimentata avanti tutto da amore: la semplice ingenua idea di confessarsi nell’opera, rendendo il processo della pittura trasparente alla luce della mente, cercando l’unicità del gesto in una unicità di visione, dove l’imperfezione e la morte sono dimenticate.