Recensioni / L’Europa di Gide: tutto regge sulla libertà

Quando il mondo girava più lentamente, anche gli scrittori avevano più pazienza. Nel 1921, con le ferite della Grande Guerra ancora aperte, André Gide impiega diversi mesi per preparare il suo commento a un saggio pubblicato da Ernst Robert Curtius, e pazienza se nel frattempo il testo del grande studioso tedesco è già apparso in traduzione su un’altra rivista. Gide è Gide, la «Nouvelle Revue française» è la «Nouvelle Revue française» e, più che altro, l’argomento in questione è troppo importante perché l’autore del fluviale Diario si lasci infastidire da piccolezze di sorta. In gioco non ci sono soltanto i rapporti culturali tra Germania e Francia, ma il destino stesso del Vecchio Continente. Il futuro dell’Europa e altri scritti (Quodlibet, pagine 140, euro 12) è infatti il titolo del volume che riunisce questo e altri interventi di Gide su un argomento che, nonostante il passare del tempo, non ha perso di attualità. Cambiano gli scenari geopolitici, si modificano gli assetti di potere, ma la posta in gioco è sempre la stessa: riconoscersi diversi e, nello stesso tempo, scoprire di essere complementari.
Distribuite su un arco di tempo che dal 1919 arriva fino al 1946, le riflessioni di Gide sull’Europa disegnano la transizione da un dopoguerra all’altro e risentono di un dopoguerra ancora più remoto, quello relativo al conflitto franco-prussiano del 1870-71. Le due nazioni si erano già fronteggiate altre volte nel corso della storia, ma è in questo scorcio di XIX secolo che l’inimicizia rischia di cristallizzarsi. Perfino sulla prosa sopraffina di Gide, così insofferente ai luogo comune, sembra allungarsi l’ombra del pregiudizio, specie quando si trova a tratteggiare l’idealtipo germanico: «Non sono mai distratti. Quante volte mi sono ricordato di queste parole. Mi pare che non si sia detto sui tedeschi niente di più giusto ». Ma anche nella descrizione del tedesco che «non pensa a nulla» perché «non ha un’esistenza personale» agisce il principio di complementarità che porta a condannare la tendenza alla divagazione come una delle principali debolezze francesi. In realtà, Gide non nutre alcuna simpatia per le semplificazioni di stampo nazionalista. Non fosse altro che per ragioni personali (i genitori provenivano da regioni molto distanti, lui era nato a Parigi nel 1869 e a Parigi sarebbe morto nel 1951), tiene in sospetto ogni pretesa di purezza ed è irremovibile nel sostenere la necessità di non turbare la fragile armonia su cui si fonda il «concerto europeo»: qualsiasi tentativo di far prevalere un elemento sull’altro è «un’assurdità», sostiene.
Sono le premesse da cui scaturisce il dialogo a distanza con Curtius (che era stato, tra l’altro, uno dei più precoci e attenti lettori della Recherche di Proust), oltre che l’ammirazione riservata all’europeismo di Thomas Mann. In comune con quest’ultimo, Gide ha la convinzione che l’umanesimo, in ogni sua articolazione, sia anzitutto un’avventura spirituale. «È rendendosi il più possibile particolari che si serve meglio l’interesse più generale – annota –; e questo è vero per i Paesi come per gli individui. Ma questa verità deve essere rafforzata dalla seguente: è rinunciando a sé stessi che ci si trova». Come sottolineano giustamente le curatrici (la raccolta è il risultato della collaborazione tra Paola Codazzi, Tania Collani, Martina Della Casa e Paola Fossa), la memoria dei Vangeli corre sottotraccia a tutta l’opera di Gide, a conferma del suo contraddittorio e vitale rapporto con il cristianesimo. Particolarmente significativa, in questo senso, è l’insistenza sul valore delle minoranze, alle quali è affidato il compito di resistere a ogni irrigidimento ideologico. « Il totalitarismo è stato vinto in guerra; non permettiamogli di trionfare nella pace», ammonisce all’indomani della Seconda guerra mondiale, affidando ai « piccoli popoli» e ai «piccoli numeri» una missione di tipo quasi escatologico (« Il mondo sarà salvato da pochi»). Non meno incisive, però, sono le raccomandazioni rivolte ai giovani: «Diffidate di ogni postura dello spirito che favorisca la pigrizia, di ogni preconcetto, di ogni menù dell’animo a prezzo fisso, di tutto ciò che dispensi dal cercare per conto proprio, di ogni irreggimentazione sotto un’uniforme, sia essa rossa o bianca, o nera». Ancora una volta, i colori possono variare, ma è di questa libertà interiore che l’Europa di oggi ha bisogno.