Pubblicato nella collana “Materiali IT” della casa editrice Quodlibet, dedicata
proprio al dibattito intorno all’Italian Thought, il volume recentemente pubblicato di
Corrado Claverini non è una difesa partigiana e aprioristica di una semplice posizione
ideologica. Al contrario, è un accurato tentativo di definire, per prima cosa, uno schema
metodologico, a partire da una premessa: se vogliamo definire qualcosa occorre
interrogare ciò di cui si parla mediante un’analisi delle fonti a cui abbiamo accesso e
soprattutto mediante la storia di quei “discorsi” che ci permettono di definire quel
qualcosa. Tradotto: un qualcosa chiamato Italian Thought non può esistere al di fuori dei
discorsi che su di esso sono stati fatti. Un concetto è infatti essenzialmente la storia dei
discorsi che hanno contribuito alla creazione di quel concetto, alla sua invenzione o al
suo transito da un contesto ad un altro. Claverini adotta così un termine che è proprio
della tradizione storica e storiografica: quello di paradigma. Senza concentrarsi a fondo
su questa scelta – esplicitando la quale il volume avrebbe avuto un supporto teorico senza
dubbio maggiore – l’autore sceglie un termine caro tanto ad autori come Michel Foucault,
che lo ha utilizzato nel suo approccio storico inter e intradisciplinare, o come Carlo
Ginzburg, che in Spie. Radici di un paradigma indiziario, ne faceva appunto un termine
chiave per comprendere la metodologia di un’archeologia pensata attraverso l’induzione
e deduzione indiziaria.
Senza indulgere sulla necessità di una ennesima storia del pensiero o della filosofia
italiani, che già per Garin aveva fatto il proprio tempo, il grande merito del volume di
Claverini è allora precisamente quello di tentare programmaticamente un’archeologia
della nozione di “pensiero italiano”, indicando la necessità di un lavoro interdisciplinare,
nel quale sono chiamate in causa innanzitutto filosofia e letteratura, ma dal quale non
possono risultare escluse altre discipline. Del resto, Claverini accosta già nel titolo alla
nozione di «paradigma» quella di «tradizione»: attraverso lo studio dei quattro
«paradigmi interpretativi» di cui dà conto – quello di Spaventa, di Gentile, di Garin e di
Esposito – per avvicinare la nozione di pensiero italiano, Claverini chiarisce così come il
filo che si dipana tra questi autori è quello di una tradizione storica. Tutti questi autori
fanno infatti riferimento, e in momenti storici decisivi che Claverini opportunamente
chiarisce (Claverini 2021: 125), alla presenza di un «problema» che, più ancora che
storiografico, possiede indubbie connotazioni teoretiche. Per tutti questi autori,
individuare ed interrogare la persistenza di un pensiero italiano è infatti un punto di
partenza mediante cui potersi collocare nei confronti del proprio presente. Chi in maniera
più esplicita, chi meno, e con le dovute differente metodologiche, ciascuno di questi autori
si colloca nei confronti del presente mediante un’analisi della tradizione «italiana». Più
che riflettere, pertanto, su una forma di identitarismo del pensiero, si tratterebbe quindi di
comprendere il senso di un riferimento ad una tradizione, attraverso il quale la stessa
tradizione si è andata costruendo: una tradizione è in fondo sempre una invenzione.
Claverini chiarisce alcune motivazioni di fondo che ci consentirebbero oggi, per lo meno,
di compiere un archeologia di questo pensiero, di comprendere cioè l’uso del riferimento
storico al pensiero italiano nella produzione di molteplici discorsività filosofiche. In
questa ricerca, occupa certamente un posto di primo piano la questione della lingua, non
solo come medium expressivo, bensì come forma di espressione strettamente legata alla
struttura di un pensiero. In aggiunta, Claverini menziona lo stretto legame che, a
differenza che in altri contesti, si dà nel contesto italiano tra lingua e letteratura, così come
l’importanza di uno sguardo storico sulla stessa filosofia. Anche in questo caso, è bene
notarlo, Claverini non si fa solo interprete o archeologo dei discorsi di autori passati.
Seguendo la tradizione paradigmatica da lui stesso delineata, Claverini se ne fa anzi a sua
volta inteprete, chiarendo l’importanza del recupero della lingua e della metodologia
storica in un momento che vede la riduzione degli spazi di diversità linguistica e la
rimozione della storia, e dunque delle stesse tradizioni, come elemento di comprensione
del presente. Due ulteriori caratteristiche della tradizione italiana individuate da Claverini
possono in effetti essere utili per contrastare il modello culturale oggi egemone: la
nozione di «rinascimento» (Claverini, 2021: 130-131) e il primato della ragion pratica
sulla ragion pura.
Contro l’asimbolia, la programmatica indifferenza dell’attuale cultura egemone
verso le molteplicità prospettiche, ovvero verso le differenze delle molteplicità culturali
che stentano a integrarsi in una globalizzazione troppo spesso aggressiva, e che, per
questa stessa caratteristica, aborre la stessa possibilità di uno sguardo aperto alla
concretezza storica, Claverini chiarisce l’apporto che il ripensamento della tradizione di
pensiero italiano può dare ad una nuova utopia cosmopolita, nel cui contesto le differenze
possono dialogare, e anche integrarsi, senza per questo annullarsi. Così, se «l’idea di
concretezza storica e di rinascita sempre possibile è ciò che caratterizza il nostro
patrimonio culturale dal periodo umanistico-rinascimentale a quello risorgimentale»,
«[N]on è difficile comprendere allora per quale motivo nell’odierna epoca della ragion
cinica, in cui nessun “nuovo rinascimento” sembra essere concepibile, la filosofia italiana
può svolgere un ruolo fondamentale» (Claverini, 2021: 131).
Del resto, contro una idea del pensiero italiano costretto nei vincoli di un
nazionalismo, Claverini esplicita come il pensiero italiano – ad esempio
nell’interpretazione che ne dá Mazzini – non può essere assimilata ad uno sciovinismo,
proprio per le caratteristiche cosmopolitiche che l’idea di Italia ha comportato per una
buona parte della sua storia, per lo meno fino al momento – mi sentirei di aggiungere –
in cui le classi egemoni del nuovo Stato non hanno prodotto un’ideologia nazionalistica
a uso e consumo delle politiche imperialistiche, il cui esito ultimo si declinerà appunto
come fascismo. Ciò che più persuade Claverini, e che può risultare davvero utile per la
messa a punto di un paradigma adottabile anche in altri contesti, è l’uso che Roberto
Esposito fa della nozione deleuziana e guattariniana di «territorio». In questo senso,
l’«estroflessione italiana», più che rimandare ad una fissità o ad una persistenza storica
di un modello di pensiero ancorato ad un territorio, implica infatti una «dialettica di
territorializzazione e derritorializzazione» (Claverini, 2021: 25).
Una dialettica, questa, che Claverini mette in evidenza nel caso del primo
paradigma illustrato, quello di Spaventa, il quale, se da una parte critica la genealogia
vichiana di un’antiquissima italorum sapientia, dall’altro si rivolge al Rinascimento come
momento d’inizio di una forma del pensiero propriamente moderna. Spaventa attribuisce
così al pensiero italiano il paradigma del precorrimento storico, nel quale Campanella e
Bruno anticiperebbero, ad esempio, Cartesio e Spinoza. Tuttavia, è nell’opera Filosofia
italiana nelle sue relazioni con la filosofia europea che emerge il paradigma più utile a
comprendere l’importanza della riflessione spaventiana per il disegno di una tradizione
italiana e, probabilmente, anche quello più utile a pensarne l’attualità. Se la filosofia è un
elemento centrale del Risorgimento nazionale, e possiede, pertanto, una sua innata
componente politica, tuttavia essa dev’essere continuamente pensata attraverso un
rapporto dialettico tra universalità e particolarità. In questo senso, la teoria spaventiana
della circolazione del pensiero italiano consentirebbe di «ripensare l’universalità secondo
una logica del tutto differente da quella dominante nell’odierna epoca della
globalizzazione» (Claverini, 2021: 50). La lezione di Spaventa, che molto spesso
ricorre nell’attuale dibattito, può così integrarsi nella ricerca di un «universalismo delle
differenze» da contrapporre sia al «globalismo imperante» che ai «nazionalismi
rinascenti».
Se Spaventa fu il «maestro ideale» (Claverini, 2021: 53) di Giovanni Gentile,
la ricerca storica di quest’ultimo sui motivi di fondo del pensiero italiano va ben oltre il
Rinascimento – spingendosi cioè fino all’umanesimo di Dante e Petrarca. Claverini mette
opportunamente in evidenza la discrasia presente in questo senso nell’idealismo italiano,
con la posizione di Croce, del tutto opposta a quella di Gentile. Per Croce, infatti,
l’universalità del pensiero filosofico non è in alcun caso scambiabile con una forma di
particolarità del pensiero, ancor di più se questa si radica in una forma di particolarismo
nazionale. Per Gentile, però, una filosofia “moderna”, slegata cioè dai motivi propri della
scolastica, e nella quale si definisce come centrale il problema della coscienza
individuale, è impensabile senza quel momento di autonomizzazione del pensiero e del
potere politico dalla Chiesa, rappresentato dall’umanesimo o addirittura dal preumanesimo riferibile alla corte siciliana di Federico II di Svevia. Con Dante, Marsilio da
Padova e, più concretamente, con Petrarca, dunque attraverso l’umanesimo italiano, il
pensiero occidentale potrà dirsi entrato compiutamente nella modernità. Se il pensiero
italiano dà così vita alla modernità, esso evidenzierà però ben presto quell’attitudine civile
e politica caratterizzata da Andrea Tagliapietra come un «esser contro». «Il vettore
speculativo che va da Dante a Machiavelli, da Bruno a Galilei, fino a Campanella, spesso
ha criticato il pensiero costituito» scrive Claverini. «In tal senso si profila una linea che
potremmo definire – usando un termine caro agli esponenti dell’Italian Thought –
maledetta» (Claverini, 2021: 68). Gentile non punta però a fare una semplice storia
del pensiero italiano. Riflettendo su Rosmini e Galluppi, emerge infatti, sottolinea
Claverini, una metodologia «che consiste nel far funzionare un dipositivo non “storico”
ma “speculativo”, tale per cui in un autore può esser rintracciato un “impensato”
inconsapevolmente celato» (Claverini, 2021: 78). Il vero scopo di Gentile è il
tentativo di «dimostrare che l’intero svolgimento del pensiero italiano aveva in sé, in
nuce, la potente visione dell’idealismo in cui tutto è portato a grande sintesi»
(Claverini, 2021: 81). Nella militanza risorgimentale, in cui la filosofia diventa «più
simile alla religione», Gentile trova così il vero sbocco dell’itinerario filosofico disegnato
in precedenza dal pensiero in lingua italiana: il nazionalismo diventa così il fine spirituale
del pensiero, ovvero la creazione di un «sistema di vita», che coincide, poi, col vero scopo
dell’attualismo. In questo sguardo processuale al pensiero italiano come circolazione
continua non può trovare più posto, per Gentile, l’idea che esistano dei vuoti del pensiero,
rilevati da Spaventa nei periodi storici che seperano Campanella da Vico e Vico da
Galluppi.
Con Eugenio Garin, Claverini giunge così a illustrare il terzo paradigma attraverso
cui la tradizione filosofica italiana ha riflettuto su se stessa. Garin capovolge la
connessione tra filosofia e storia che Spaventa e Gentile avevano chiarito: «in lui è la
storia stessa che viene portata in primo piano, con le sue discontinuità e i suoi mutamenti,
senza che vi sia una “logica” sotterranea a guidarne il movimento» (Claverini, 2021:
87). Se Spaventa finiva con l’imporre la sua voce teoretica a quella dei suoi autori e
Gentile pretendeva di dissolvere teleologicamente la sua indagine storica nel compimento
dell’attualismo, per Garin occorre diffidare dal dare della storia del pensiero italiano una
interpretazione troppo unilaterale. Se da una parte dunque Garin cerca di valorizzare le
diverse sfumature della tradizione italiana, evidenziandone la prospettiva etico-civile,
dall’altro si congeda dalla «storia “non storica” degli idealisti» (Claverini, 2021: 89).
Recuperando la centralità di Cattaneo, Garin si associa così all’urgenza, condivisa da
Bobbio, di combattere l’«ideologia italiana». Con Bobbio però Garin condivide anche la
disillusione sul fatto che una storia civile del pensiero italiano abbia ancora senso: se il
primo, nel 1982, si confrontava con l’indifferenza delle nuove generazioni verso la stessa
nozione di identità italiana, Garin porta a compimento la sua Storia della filosofia italiana
«senza molta convinzione» (Claverini, 2021: 91). Dell’opera vedono tuttavia la luce
diverse edizioni e, più di recente, anche una edizione inglese, segno comunque di una
circolazione e di un interesse che sembrano in qualche modo attenuare in parte i motivi
del disincanto dell’autore. Claverini ritiene dunque necessario chiarire alcuni dei temi
fondamentali dell’opera, tra tutti quello di «tornare a indagare la storia nella sua
concretezza, concependola dunque come processo libero e non teleologicamente orientato
dalla trascendenza all’immanenza», e quello di «mostrare nella vicenda culturale italiana
la prevalenza di una vocazione etico-civile che sa incidere nella vita effettuale più di
qualsasia astrattezza teorica» (Claverini, 2021: 92). La presenza di una vocazione
etico-civile e di un pensiero tragico appaiono dunque come le due linee fondamentali che
la riflessione di Garin permette di chiarire nella sua indagine storica. L’importanza della
prima linea sarà rilevata da Cacciatore e da Viano, mentre Bodei – a cui si deve la
creazione dell’espressione «ragione impura», tra «le più felici», per Claverini, per
descrivere la «differenza italiana» – e Galasso metteranno in evidenza il motore tragico
di un’altro orizzonte fondamentale del pensiero italiano. Accanto all’attitudine civile
emerge così quella componente radicalmente alternativa al pensiero idealista che si
manifesta in Petrarca, Machiavelli, Alberti, Leopardi e poi nel Novecento in Rensi,
Tilgher, Michelstaedter, Cacciari. Infine, anche il tentativo di aggiornamento del
paradigma gariniano proposto da Ciliberto permette di comprendere la sua rilevanza
attuale, soprattutto per la sua capacità di evidenziare la costitutiva pluralità di tradizioni
che nel pensiero italiano si manifestano.
Arrivando all’attualità, attraverso la riflessione di Roberto Esposito, contenuta
soprattutto in Pensiero vivente, Claverini espone così l’ultimo paradigma della sua
archeologia, quello contemporaneo. Il tentativo di Esposito è infatti quello di offrire una
chiave di lettura dell’impatto e della diffusione che, a partire dalle traduzioni inglesi di
diversi autori come Agamben, Negri, Virno, Troni, Vattimo e dello stesso Esposito, ha
avuto soprattutto nel Nordamerica il pensiero italiano contemporaneo. Esposito rintraccia
le caratteristiche peculiari del pensiero italiano, e dunque di questo rinnovato interesse
internazionale, nelle sue origini umanistiche, sottolineando l’importanza che già
Machiavelli offre alle nozioni di vita e di politica. Il pensiero italiano sarebbe così
caratterizzato da una naturale propensione per il non filosofico e per la costruzione di una
modernità altra da quella definita dai percorsi di pensiero che emergono in altri contesti.
Il pensiero italiano, tuttavia, non può essere definito, per Esposito, a partire da caratteri
nazionali: è invece la nozione deleuziana di «territorio» a consentire di comprendere
quell’ancoramento al particolare che permette di definire i caratteri di un certo pensiero.
E sarebbe così proprio la «deterritorializzazione», la tendenza a fuoriuscire dai vincoli
territoriali o disciplinari, una delle caratteristiche cogenti della tradizione intellettuale
italiana, una «propensione dovuta al cosmopolitismo e al carattere non nazionale che ha
contraddistinto la filosofia italiana sin dalla Scolastica e dal Rinascimento»
(CLAVERINI, 2021: 107). In quanto filosofia delle forme di resistenza più che del potere,
quella italiana sarebbe caratterizzata dunque da una manifestazione del conflitto,
un’attitudine simile a quella descritta da Negri in Italy, Exile Country: l’esilio
condizionerebbe infatti in modo determinante, secondo Negri, e proprio a causa del
mancato successo delle istanze rivoluzionarie nella Penisola, le stesse prospettive della
letteratura e del pensiero italiano, oltre che della stessa identità italiana. L’espressione
provvisoria di Italian Thought, come hanno messo in evidenza anche Stimilli e Gentile
sulla scorta di Esposito, esprimerebbe pertanto il carattere di nuova
«riterritorializzazione» in esilio, per così dire, del pensiero italiano, l’espressione di un
pensiero che, per potersi manifestare, deve farlo da fuori, utilizzando addirittura un calco
linguistico. Meno identificabile che nel passato, anche per la differenza di prospettive che
effettivamente si aprono nel dibattito italiano contemporaneo, come lo stesso Esposito
ammette, l’Italian Thought appare tuttavia come qualcosa di “riconoscibile” nel contesto
internazionale, a partire soprattutto dal successo editoriale di tre antologie su cui Esposito
si sofferma in Pensiero vivente: Recording Metaphysics. The New Italian Philosophy, del
1988, Radical Thought in Italy. A Potential Politics, del 1996, e The Italian Difference
between Nihilism and Biopolitics, del 2009. Tuttavia, con l’eccezione di Esposito,
chiarisce opportunamente Claverini, «gli esponenti dell’Italian Thought si riferiscono
solo agli ultimi decenni della filosofia italiana (dall’operaismo degli anni Sessanta alla
biopolitica contemporanea) e non alla nostra intera tradizione di pensiero» (Claverini,
2021: 113).
Alla critica mossa ad Esposito, ad esempio da Viano, di «presentare se stesso e la
biopolitica italiana come l’inveramento di tutta la tradizione nazionale» (Claverini,
2021: 118), ciò che insomma farebbe di Esposito un perfetto allievo, con altri mezzi, di
Spaventa o Gentile, Claverini risponde però sottolineando il carattere genealogico
dell’opera del pensatore napoletano. Al tempo stesso, proprio il carattere genealogico
dell’opera di Esposito annullerebbe gli aspetti problematici relativi alla possibilità di
definire univocamente una tradizione di pensiero proprio a partire dalla sua estrema
eterogeneità: «[Q]ui non è dunque possibile alcun “ecumenismo storiografico” [...].
L’autore di Pensiero vivente non intende fornire una precisa ricostruzione della storia del
pensiero italiano» (Claverini, 2021: 78). È la visione da fuori, e propriamente quella
che viene dagli Stati Uniti d’America, ovvero l’incidenza che una parte del pensiero
italiano ha avuto nelle concrete situazioni storiche e politiche americane – è il caso di
Beccaria, di Mazzini, di Gramsci –, insieme alla lettura che Oltreoceano si è data di grandi
classici moderni come Vico e Leopardi, di contemporanei come Eco e Vattimo, oltre alla
più recente pubblicazione, direttamente in inglese, della triade Empire-Multitude-Commonwealth di Negri-Hardt, che chiarirebbe la presenza, per lo meno, di un naggirabile fatto filosofico: una Italian Philosophy vista, da fuori, come aggregato
culturale e come soggetto di produzione culturale. Un modello, non importa quanto anche
proiettivo o illusorio, ma certamente presente nel contesto attuale, a cui insomma fare
riferimento, di cui poter parlare e attraverso cui produrre ulteriori discorsi in grado di
mettere in questione un rapporto sovradeterminato tra globalizzazione e territorio:
Se la proposta di Claverini è dunque quella di una archeologia dei discorsi che
permettono di riferirsi a un paradigma storico del pensiero, sarà certamente decisivo, nel
futuro, scrivere nuovi capitoli che aiutino a interrogare questo paradigma. Sarà importante
farlo, probabilmente, proprio a partire da uno studio dei legami che in una «tradizione»
si manifestano tra pratiche differenti del pensiero. In fondo, se a un «modello» di pratica
il pensiero italiano può fare riferimento – come del resto possono testimoniare ancora
adesso i più giovani allievi formatisi nelle Università italiane – questo certamente non
può esulare dalla storia. Meglio: dalla storia dei riferimenti. Ancora adesso gli studiosi
italiani vengono riconosciuti, e anche criticati, per la conoscenza storica della filosofia,
un modello formativo direttamente legato al paradigma esplicitato da Claverini.
L’incidenza dello sguardo storico permette però proprio al pensiero italiano
contemporaneo di criticare una troppo stretta assunzione della propria endogeneità. Solo
per fare un esempio: Leopardi, riconosciuto come poeta, ma oggi anche all’estero – grazie
alla traduzione inglese dello Zibaldone – come filosofo, riprende temi propri della
tradizione italiana soprattutto per muoverli contro la propria attualità. Quello di Leopardi
è dunque un modello «tragico» di pensiero italiano – se non il modello per eccellenza –
che però, rifiutato dall’idealismo italiano, influenzerà da un lato la riflessione letteraria
italiana di Pirandello o di De Roberto e dall’altro quella filosofica tedesca antidealistica,
come nel caso di Schopenhauer e Nietzsche, e che poi “rientrerà” nel dibattito filosofico
italiano proprio nel momento in cui si scatenerà una reazione anti-idealistica (del resto,
proprio uno dei riferimenti principali dell’Italian Thought, Antonio Negri, dedicherà a
Leopardi uno dei suoi saggi più belli, Lenta Ginestra). Abbiamo così, con Leopardi, il
caso di un pensiero che “rientra” nel contesto italiano solo grazie ad una estroflessione.
Altro esempio è quello del pensiero di Gramsci, oggi meno evocato come pensatore
marxista e più come filosofo dell’egemonia. Sarebbe esistito Gramsci senza Labriola,
Croce o Gentile? Certamente no, così come, ovviamente, non sarebbe esistito senza Marx
o Lenin: eppure, è indiscutibile che Gramsci rifletta dal carcere sulla situazione politica e
sulla tradizione culturale italiana, proprio per il suo carattere paradigmatico. Il pensiero
di Gramsci finisce dunque con l’essere utilizzato laddove occorre una lettura sociale che
acquisisca un carattere paradigmatico: non essendo più questo il caso della società
italiana, la linea italiana del pensiero gramsciano acquista un senso maggiore più in altri
contesti che nello stesso dibattito italiano. Non è detto, in questo caso, che una
estroflessione produca degli effetti sul proprio paradigma: quanto è davvero interno
all’Italian Thought l’uso che di Gramsci si fa oggi, per esempio, nel Sudamerica?
La ricerca di Claverini rispecchia senz’altro il modello italiano di ricerca storica di
un paradigma, aprendo a due interrogazioni di fondo, una di merito, l’altra di contenuto:
è davvero necessario filosoficamente, oggi, compiere una ricerca storica sui paradigmi di
pensiero secondo un modello che possiamo riscontrare lungo la tradizione filosofica
italiana? E perché, oggi, è necessario interrogarsi su questo paradigma? Claverini
chiarisce l’esigenza, che forse attiene alle giovani generazioni italiane contemporanee, di
resistere ad una egemonia culturale globalizzante avvertita come asfissiante: fare la storia
di un paradigma significherebbe in questo caso, già di per sé, praticare una resistenza,
sottolineare quelle dimensioni «glocali» - ovvero globali e locali al tempo stesso – che
permettono di pensare le differenze e attraverso di esse immaginare un cosmopolitismo
futuro. Se in questo senso la mossa archeologica dell’autore è del tutto convincente,
occorre dare spazio però, in misura maggiore, proprio a quella «estroflessione» critica da
cui essa si sviluppa, ad una inattualità cioè che – come del resto accaduto proprio nel
contesto della tradizione italiana – sia capace di ricondurre sul presente elementi di
pensiero abbandonati e dimenticati, proprio per consentire al presente di leggersi
contropelo. Si tratta cioè di scoprire e tornare a leggere momenti anche dimenticati della
tradizione filosofica italiana, provando a rileggerli tra le tracce che il presente ci
consegna; dall’altro lato, occorre interrogare ormai la plurivocità, anche linguistica, oltre
che disciplinare, con cui l’influenza di pensatori italiani si manifesta in altri contesti, che
non siano quelli anglofoni o francofoni. Basti pensare a due mondi, come quello lusofono,
o come quello ispanofono, che oggi dibattono su Gramsci, Agamben, Negri, Esposito,
ecc. senza per questo darsi la briga di tradurre in inglese, né in italiano, le proprie
riflessioni, spesso decisive anche per i loro effetti sulle specifiche realtà politiche
nazionali e sulle questioni internazionali. Perché parlare allora di un Italian Thought e
non anche di un Pensamento italiano o di un Pensamiento italiano?
Ripensare la «deterritorializzazione» italiana significa oggi consentire infatti a tutti
gli sguardi che da fuori guardano e reinventano il paradigma italiano di manifestarsi e di
contribuire a questa reinvenzione. In ultimo, non può sfuggire che tutta la tradizione
filosofica italiana, così come letta da Claverini, ha un problema condiviso, che non è solo
quello «nazionale», ma piuttosto quello dell’Italia come paradigma di un contesto sociale
e politico attraverso cui leggere, e decifrare, un universale. Non differentemente da quanto
accadeva in altre epoche storiche, le pratiche di pensiero hanno oggi una scarsa influenza
sui modelli di sviluppo della società italiana, del resto sempre più ai margini della società
globale e delle scelte geopolitiche internazionali. Come già avvertiva Garin, inoltre,
sempre meno il contesto italiano assurge, per le nuove generazioni, a oggetto di
interrogazione. Il futuro dell’Italian Thought rischia allora necessariamente di divenire
un paradigma a sua volta globale, progressivamente privo di un ancoramento col
territorio, anche linguistico, oltre che sociale, in cui esso nasce, oppure una proiezione di
ritorno, per così dire, in cui certe pratiche di pensiero vengono definite come “italiane”
semplicemente a partire dal riconoscimento di modelli di riferimento a loro volta
omologanti. In un momento in cui non solo l’Italia, ma l’Europa stessa, diventano
progressivamente significanti culturali ambigui per le stesse società italiane e europee,
occorrerà capire se e quanto avrà senso – proprio accettando l’inattualità dei paradigmi
italiani – dirsi ancora italiani. Nell’ebollizione storica prodotta del resto da ciò che
chiamiamo globalizzazione, d’altronde, anche la società italiana cambia in fretta: non può
sfuggire come le storie culturali di una parte delle generazioni italiane future saranno nate
fuori dal contesto italiano, per esempio nel caso dei figli di immigrati di seconda
generazione. Cosa e come leggeranno la propria società queste generazioni? Quale
relazione stabilisce, già oggi, il pensiero italiano con i paesaggi spopolati dell’interno,
con la fine delle culture contadine e operaie tradizionali e con la nascita di nuove culture
del lavoro subordinato, con le tracce storiche delle civiltà che hanno attraversato la
Penisola?
Riprendere l’inquietudine critica propria della tradizione che Claverini esplicita,
formulare una prassi archeologica del pensiero e utilizzare l’italiano come lingua del
pensiero sono certamente tra gli elementi che più consentono di immaginare un futuro
filosofico in grado di fare di una marginalità una forma di resistenza. Come siamo certi
oggi della marginalizzazione di fasce sempre più ampie di popolazione globale, possiamo
essere certi anche della necessità futura di una strumentazione teorica che consenta di
resistere, che inviti innanzitutto a guardare il presente come qualcosa di mai del tutto
fisso, anzi, a volte di semplicemente tragico, o magari come l’annuncio di una possibilità
o di un inveramento ancora da costruire. Inventare un paradigma, farne l’archeologia, è
allora già un primo passo, un esercizio di pensiero, atto a mobilitare quelle energie in
grado di contrastare qualunque presente che si voglia eterno ed uguale a se stesso.
Inventare una tradizione è già riscoprirla: riscoprirla è reinventarla e reiniziarla. È questo,
in fondo, il principio stesso dell’utopia, ed è appunto il fondo utopico della tradizione
italiana che Claverini intende, in fondo, ripensare.