Recensioni / Horkos. Il sacramento del linguaggio: archeologia del giuramento

Ci si approccia a un nuovo libro di Agamben con un rispetto quasi religioso. Perché sai che è come lavorare un diamante grezzo, leggerlo: alla fine ti rimarrà la bellezza in tutta la sua purezza. È così anche per Horkos. Il sacramento del linguaggio, pubblicato recentemente da Quodlibet, una riflessione sul giuramento che nelle sue varie forme ha “la funzione precipua di garantire la verità e l’efficacia del linguaggio” e che diventa il pretesto per una documentata e scorrevole “indagine archeologica” in cui si chiama in causa la stessa natura dell’uomo, “come essere parlante e come animale politico”. Il giuramento, l’horkos, siamo abituati ad associarlo ad una sfera sacra. Magari lo rivestiamo spesso di forma giuridica, e giuridico ne è il contesto, ma il suo cuore, nella sostanza, è sempre o quasi un chiamar a testimonianza gli dei di una perfetta corrispondenza tra parole (e le intenzioni che esprimono) e realtà, come un adeguamento del divino e dell’umano, reso pistós, cioè credibile. E questo contestualizzando il giuramento in un istituto più grande, la fides. Colui che viola il giuramento, viola la fides. Un altro istituto con cui il giuramento è strettamente connesso è la sacratio. Con una particolare cerimonia un uomo veniva reso sacer, “cioè consacrato agli dei ed escluso dal mondo degli uomini”. In ogni caso il “testimone” era anche il “punitore” dello spergiuro. A leggere dietro le quinte del mito vuol dire trovare questa struttura: da una parte le parole e dall’altra i fatti, le azioni.
La bestemmia è un fenomeno perfettamente simmetrico al giuramento, dice Agamben. «La bestemmia è un giuramento, in cui il nome di Dio è estratto dal contesto assertorio o promissorio e viene proferito in sé, a vuoto, indipendentemente da un contenuto semantico. Il nome, che nel giuramento esprimeva e garantiva la connessione tra parole e cose, e che definisce la veridicità e la forza del logos, nella bestemmia esprime la rottura di questo nesso e la vanità del linguaggio umano. Il nome di Dio, isolato e pronunciato “in vano”, corrisponde simmetricamente allo spergiuro, che separa le parole dalle cose; giuramento e bestemmia, come bene-dizione e male-dizione, sono cooriginariamente impliciti nello stesso evento di linguaggio». Essere cooriginariamente impliciti vuol dire essere epifenomeni di un’unica esperienza del dire. La bestemmia ha una sua prossimità a un fenomeno linguistico che non è facile analizzare, cioè l’insulto. «La frase “sei un idiota” è solo apparentemente simmetrica a quella “sei un architetto”, perché, a differenza di questa, essa non è rivolta a iscrivere un soggetto in una classificazione cognitiva, ma a produrre, attraverso la sua semplice pronuncia, degli effetti prammatici particolari. Gli insulti funzionano […] piuttosto come delle esclamazioni o dei nomi propri che come termini predicativi e, con questo, mostrano la loro somiglianza con la bestemmia (blasphēmia in greco significa tanto insulto che bestemmia)». Pronunciare il nome di Dio vuol dire comprenderlo come una esperienza di linguaggio in cui non è possibile separare il nome dall’essere, le parole dalle cose. Parlare è credere nel nome. L’ontoteologia dell’Occidente è così una “prestazione performativa del linguaggio” ed è solidale “con una certa esperienza della lingua (quella che è in questione nel giuramento), nel senso che la sua validità e il suo declino coincidono col valere e col declinare di questa esperienza”. Quelli che noi oggi chiamiamo speech acts (“io giuro”, “io prometto”, “io dichiaro”…) “sono la reliquia nel linguaggio di questa esperienza costitutiva della parola – la veridizione – che si esaurisce con la sua pronuncia, perché il soggetto locutore non preesiste né si lega successivamente a essa, ma coincide integralmente con l’atto di parola”.
Noi oggi siamo le prime generazioni che hanno messo da parte il vincolo del giuramento. L’horkos non è affatto centrale nella nostra cultura. L’umanità si trova cioè per Agamen a un “allentamento del vincolo”, a una disgiunzione, tra il vivente e la sua lingua. «Da una parte sta ora il vivente, sempre più ridotto a una realtà puramente biologica e a nuda vita e dall’altra parte il parlante, separato artificialmente da esso, attraverso una molteplicità di dispositivi tecnico-mediatici, in un’esperienza della parola sempre più vana». L’età dell’eclissi del giuramento è anche l’età della bestemmia, in cui il nome di Dio esce dal suo nesso vivente con la lingua. In un momento in cui tutte le lingue sono condannate alla bestemmia, a giurare in vano, e in cui la politica assume la forma di una oikonomia, vale a dire un governo della vuota parola sulla nuda vita, solo la filosofia, “nella sobria consapevolezza della situazione estrema cui è giunto nella sua storia il vivente che ha il linguaggio”, può costituire una linea di resistenza e di svolta.