Recensioni / «…cosa ciavrà ’n canestro / ’sto Franco Scataglini?»

Ripubblico su Insula europea la recensione che ho dedicato alla prima edizione critica, accompagnata da un lessico-commento di alta qualità, dell’opera poetica completa (dialettale e in italiano) di Franco Scataglini, curata da Paolo Canettieri, Filologo romanzo della “Sapienza” di Roma, per la collana “Ardilut” diretta presso l’editore Quodlibet da Giorgio Agamben. Ho partecipato alla presentazione del volume al Teatro delle Muse di Ancona il giorno 11 marzo 2023, insieme allo stesso Paolo Canettieri, a Massimo Raffaeli e a Monica Longobardi. Queste pagine sono apparse già sull'”Indice dei libri del mese” di marzo 2023, p. 11, con il titolo Franco Scataglini fra provincia e Provenza Tu che sol per cancellare scrivi

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«Maestro d’un maestro, / Jacopo da Lentini, / cosa ciavrà ’n canestro / ’sto Franco Scataglini?». Nel suo dialetto «agontano», quell’anconitano che di fatto nasce alla poesia solo con lui, nel 1973, con E per un frutto piace tutto un orto, «nuova lingua poetica» creata non come “idioletto”, bensì come mai prima pensato «idialetto» (Canettieri), e il cui lessico è fatto di «varianti, più corpose o invece più aggraziate, dell’italiano stesso» (Mengaldo), Franco Scataglini, oggi celebre per la mitica versione “idialettale” del Roman de la Rose (La rosa, Einaudi 1992, con prefazione di Cesare Segre), traduce-(ri)scrive ai livelli più alti della lirica novecentesca una metafisica d’amore e di morte, di solitudine e di creaturalità, che irrompe nel quotidiano «puntando all’alto con gli strumenti del basso» (Brevini). La sua latitudine oscilla, secondo una bella formula di Monica Longobardi (Il giardino e la rosa, Mimesis 2018), «tra provincia e Provenza».
La volontà di scrivere come poeta romanzo è affine a quella dei Cantos di Ezra Pound, e soprattutto del suo The Spirit of Romance, uscito nel 1910 e letto da Scataglini fra i Cinquanta e i Sessanta insieme ai Poeti del Duecento di Contini, come fa notare finemente Canettieri: dialetto e lingua delle origini romanze si integrano così «in un insieme cognitivamente organico», accanto alle poesie casarsesi di Pasolini, «spingendo questo anconetano di periferia, che da bambino aveva ascoltato anche le cadenze milanesi e tutto un coro plurilingue di soldati e ufficiali invasori, a una riflessione più profonda sul “parlar materno” e sulla sua corposità vocale, sulla sua aura densa di risonanze ancestrali e di umili storie, che si poneva in armonico contrappunto con la lirica culta, acquisita ma ormai definitivamente altra».
I versi di Scataglini sono semplici e raffinati, cantabili ma spalancati sull’abisso. Prosciugati, essenziali, come gli haiku giapponesi che furono cari a Ungaretti. Si nutrono, nota l’editore, dei «“primitivi”, dei pre-dantisti e del Dante plurilingue», con «un intrigante gioco di falsificazione che comporta la piena identificazione del secondo autore nel primo»: sintomaticamente Giacomo da Lentini (settenario), rima con Franco Scataglini, che però «ha bisogno di una zeppa riduttiva (’sto) per giungere a misura». La prima raccolta, «lontana da qualsiasi stilnovismo, appartiene anima e corpo alla linea siculo-toscana provenzaleggiante […], con le sue pulsioni sensoriali di memoria arnaldiana» (Canettieri), è scandita in quartine di settenari, la struttura amata da Metastasio: ma come Mengaldo stesso sottolinea nella Prefazione, questa scelta metrica, appoggiata al «messaggio drammatico» che spesso cova sullo sfondo, avvia «la tecnica del contrasto o per così dire dell’ossimoro strutturale». La musicalità di queste quartine, la leggerezza metrica che sembra seminare e far sbocciare di colpo la sentenza conclusiva, affratellano Scataglini a Caproni, alle sue litanie sigillate da un pensoso fulmine in clausola. Mengaldo, aprendo il «Meridiano» dell’Opera in versi caproniana curata nel 1998 da Luca Zuliani, richiamava la definizione di Agamben di un Caproni «poeta a-prosodico», e descriveva un «uso di versi brevi e medi che si rotolano in cascate di rime, ma compromessi dalla trasversalità compulsiva delle mille inarcature». A me sembra anche che l’«Annina, bianca e nera» che «bastava a far primavera», l’Annina del Seme del piangere, per la quale Caproni voleva «rime chiare, / usuali: in are. / Rime magari vietate, / ma aperte: ventilate. / Rime coi suoni fini / (di mare) dei suoi orecchini», abbia la stessa consistenza fantasmatica di sapore trobadorico, lentiniano, stilnovistico, della Rosa/Rosellina, sehnal che Scataglini canta in rarissimi versi italiani per la prima volta portati alla luce da Paolo Canettieri in quest’edizione mirabile per cura filologica ed esegetica: «Oh il bel nome “Rosellina”! / “Ros” – che vuol dire brina / sulla rosa: la “roselbrina”. / mio bene, / il tuo nome stesso / è un canto / Franco» (Natale 1993). E ancora, il 22 marzo 1991, richiamando il Nome della Rosa, della “sua” Rosa, e insieme facendo cenno al Roman de la Rose appena tradotto in «agontano» (sarebbe stato pubblicato pochi mesi più tardi, nel 1992 nella “bianca” Einaudi con prefazione di Cesare Segre), ecco un distico fonosimbolico che più caproniano non potrebbe immaginarsi: «Memori de “La Rosa” / vanno le rose a Rosa». Mi domando poi se sia una sorta di capronismo trascendentale che dettò So’ rimaso la spina , poesia eponima della collezione del 1977, con prefazione di Carlo Betocchi, il quale di Caproni fu amico: «Est’amore m’ha coto / come ’na mugelina. / Spolpato sopra e soto / so’ rimaso la spina». Sicuramente Monica Longobardi ha trovato con acume l’origine dell’immagine nella «ponha d’amors que.m sostra / la carn» di Jaufre Rudel («trafittura d’amore che mi consuma / la carne», con il primo enjambement delle letterature romanze) e nella «dolors que ab joi sana» dello stesso trovatore, «que plus es ponhens qu’espina». Il dolore che cuoce il «poeta-pesce preso all’amo» è gioia che sana: e nella dichiarazione (Questionario per i poeti in dialetto , 1988) «Amo Rudel come se fosse qui» il gioco fra l’“amo” e il verbo “amare” recupera un antichissimo equivoco lirico. Però So’ rimaso la spina rispecchia anche il finale di El senso del mio testo , la poesia che chiude la raccolta precedente, E per un frutto piace tutto un orto : «L’assenza de quel gesto / da sempre me tortura. / El senso de ’l mio testo / è ’na cancelatura». E nella rete intermemoriale del lettore questi versi fanno echeggiare insieme altresì il Dante di Paradiso XVIII 130, «Ma tu che sol per cancellare scrivi» (con altro senso, ma così misteriosamente vicino alla mistica di Meister Eckhart!) e il Caproni postumo di Res amissa (quel Caproni che, tanto vicino a Betocchi, probabilmente lesse le poesie di Scataglini – e allora per la figura rudelliana della spina si dovrebbe parlare di scataglinismo trascendentale ): «Generalizzando. / Tutti riceviamo un dono. / Poi, non ricordiamo più / né da chi né che sia. / Soltanto, ne conserviamo / – pungente e senza condono – / la spina della nostalgia».
Dieci anni prima di Rosellina/Roselbrina («22-9-83»), come sempre con dedica in corsivo «A Rosellina / Franco », nasceva un’altra splendida dichiarazione d’amore, che è anche (per usare una formula geniale di Zanzotto) la più forte «notificazione di presenza» in Ancona, dove vibra l’eco memoriale di fantasmi dialettali: «Ho visto in fondo al mio cuore / che io, Franco Scataglini, non ho / paura di morire / perché io so che giorno per giorno / impallidisce dentro di me / un pigmento della mia vita e si colora / un pigmento della mia morte: ma il mio amore è il coniglio trepido, / il mio amore per te, / la piccola creatura di pelliccia / – che vuol essere sempre».
Memoria dialettale, appunto. Nel Taccuino inglese che Canettieri ha estratto, inedito, dall’archivio privato dell’autore messo a sua disposizione da Rosellina Massi, l’“io” già si nomina per non morire , o, secondo una magnifica formula di Roland Barthes, car il faut bien durer un peu plus que sa voix : «quassù a Pietralacroce / Scataglini che scrive, / per non murí, la voce / soltanto sopravive». E l’eccellente glossario approntato da Canettieri con maestria di filologo romanzo aiuta la memoria sonora a far saltare fuori dalla sua tana scavata nelle zolle del dialetto quel «coniglio trepido», tenero animalino-fantasma del microbestiario d’amore di Scataglini. In El Sol («forse l’opera più importante e trascurata di Scataglini», secondo Canettieri) ecco un timido coniglietto-scataglinetto far capolino nell’orizzonte nostalgico di un’arcadia contadina che costituisce lo sfondo della sua metafisica tracimante nel quotidiano con le continue inarcature/spezzature degli enjambements: «[…] Era a carburo / le luci de le stalle. / Guardavo, cunilletto / col capo ’ntra le spalle, / el culmine perfetto
del visibile. Un uscio / svelava un rosso arcoro / de rola acesa. Un fruscio / de vaste foie d’oro rempiva el scuro, ed era / ogni voce un distante / richiamo de chimera / perso in mezo a le piante».
Come già fece per Caproni e per la sua «disappropriata maniera» in Res amissa, Giorgio Agamben, nella densissima pagina di Avvertenza, coglie il cuore della poetica di Scataglini «nel bilico sottile e illocalizzabile che divide il dialetto anconetano dall’italiano», e che conferma «l’essenziale bilinguismo della poesia italiana»: «Non esiste una lingua: esiste soltanto un campo di ardue tensioni fra una realtà sorgiva e in perenne movimento (che Dante chiamava volgare) e una grammatica che cerca invano di contenerla e fissarla». Canettieri ricorda come Francesco Scarabicchi riconoscesse nel «dialeto» del suo amico Scataglini, uscito «da l’infanzia», una lingua «cinguettata dai morti sul colombaio di cimitero» che è anche l’«inconscia definizione di sé e del proprio stato». «La lingua dei poeti è sempre una lingua morta», annunciava Giovanni Pascoli nei Pensieri scolastici, aggiungendo subito: «curioso a dirsi: lingua morta che si usa a dar maggior vita al pensiero».
Giorgio Agamben, ancora una volta, riportando alla luce queste radicali dichiarazioni di poetica, riconosce come si raggiunga qui «l’esperienza dello stesso avvento originario della parola. […] Il pensiero vive della morte delle parole. Pensare, poetare significherebbero, in questa prospettiva, far esperienza della morte della parola, proferire (e resuscitare) le morte parole». Per questo gli opera omnia del poeta Scataglini sono accolti nella collana «Ardilut», diretta da Agamben, che ha già accostato il Pasolini di I Turcs tal Friul a In nessuna lingua In nessun luogo, le poesie dialettali di Zanzotto. Il dialetto è il lógos erchómenos, la lingua «veniente di là dove non è scrittura […] né “grammatica”: luogo, allora, di un logos che resta per sempre “erchómenos”, che mai si raggela in un taglio di evento, che rimane quasi “infante” pur nel suo dirsi». Di questo logos-infans, continua Zanzotto, noi non conosciamo la scaturigine: «non sappiamo di dove la lingua venga, nel momento in cui vieme, monta come un latte». Gnessuluogo si chiama quel non-luogo, quella non-grammatica, «neovolgare eterno […] insieme nuovo e antichissimo» (Agamben).
Questo sopravvenire dalle origini del «dialeto» è la voce di Giacomo da Lentini, di Jacopone da Todi, di Jaufre Rudel che rivivono e si cancellano in quella di Scataglini. «Per me vita e scritura / ène compagni, el sai, / tuta scancelatura / dopo dulor de sbai.
Se cerca ’n sòno lindo / drento de sé e se trova / el biatolà d’un dindo / spèrsose ’nte la piova». Così, in Vita e scrittura, in So’ rimaso la spina (1977). Il bestiario neotrobadorico di Scataglini è il trepido «cunilletto», è quel tacchinello che si perde nella pioggia lanciando il suo lamento come la gallina leopardiana che «ripete il suo verso» dopo la tempesta, e come la tenera pollastra-moglie di Umberto Saba, la cui voce ha «la soave e triste / musica dei pollai»; è la popolazione innumerevole dei volatili trobadorici che frullano in questi versi, spesso ingabbiati in un quasi-haiku: «Piantine de verde / tra i fili de ferro, / un volo se perde / de dietro lo sterro».
Se per Wallace Stevens la Poesia è un fagiano che fulmineo scompare nel bosco («Poetry is a pheasant disappearing in the brush»), il «logos che resta sempre “erchómenos”», «sempre veniente» di Scataglini batte le ali in questo metafisico, trobadorico «volo che se perde / de dietro lo sterro».