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Zurigo, Burghȍlzli 12 novembre 1932.
Assemblea annuale della Società svizzera di Psichiatria.
Eugène Minkowski presenta una comunicazione su Le problème du temps en psychopathologie. Ludwig Binswanger riserva a sé il tema dello spazio con la relazione Das Raumproblem in der Psychopathologie. I due psicopatologi si confrontano sulle categorie fondamentali del Dasein, il tempo e lo spazio e le loro trasformazioni cliniche. Tutta la riflessione psicopatologica successiva non potrà non farvi riferimento. La descrizione della parabola umana e clinica dei pazienti storici da Lola Voss a Suzanne Urban e di tutti quelli che seguiranno vi ritroverà una irrinunciabile chiave di comprensione. Perché, come dice Binswanger citando il poeta Hȍlderlin, «… ai confini estremi della sofferenza, non sussistono che le condizioni (!) del tempo o dello spazio».
Incardinata tra la relazione di Minkowski sulla psicopatologia del tempo ed i propri studi sulla fuga delle idee e la schizofrenia, la riflessione di Binswanger è un’articolata analisi della costituzione dello spazio, della diversità di quelle che definisce forme spaziali e della loro destrutturazione. Egli distingue lo spazio del mondo naturale, nelle sue declinazioni di spazio orientato, geometrico e fisico per individuarne le connessioni con la psicologia e la psicopatologia, descriverne i metodi d’indagine, il senso ed i limiti della ricerca collocandosi all’interno di una ricca tradizione di studi di matrice neurologica, psicopatologica e filosofica. Per descrivere la relazione funzionale tra spazio e corpo, si rifà in primo luogo all’integrazione del corpo fisico con il corpo vivo, animato da vissuti ed intenzione.
La seconda articolazione è quella dello spazio timico, l’esperienza vissuta dello spazio, l’inevitabile tono affettivo dell’essere-nelmondo, lo spazio presenziale di Straus, «… lo spazio all’interno del quale sosta l’esserci umano in quanto emotivamente situato», come Binswanger stesso lo definisce. Il sistema di coordinate entro cui sviluppa la sua riflessione è dato da tre direzioni di ricerca riguardanti l’intuizione, l’empatia, la percezione fenomenologicamente intesa. In questa prospettiva, «… Io e mondo formano sempre una unità dialettica nella quale non è uno dei due poli a conferire senso all’altro, ma al contrario il senso consegue alla loro contrapposizione». In questa unità dialettica tra accadimento e vissuto, «… a seconda del mio stato d’animo – se il mio cuore è largo o stretto, se si gonfia di gioia o si restringe per il dolore, se è così pieno da traboccare o se è spento e vuoto - cambia anche l’espressione del mondo».
Questo spazio non ha più soltanto il carattere finalizzato e logico, proprio del mondo naturale, ma acquisisce una dimensione patica, quella propria di un’esistenza che Binswanger definisce senza scopo, ma ricca e profonda, aperta ai modi della possibilità, che fa dell’uomo un uomo, in una sintesi tra spazio, movimento, Sé, altro. È il modo dell’esperienza descritto dalla stretta al cuore, che va oltre qualsiasi naturalistico rapporto causa-effetto per aprirsi ad altri possibili significati.
Ed è su questo orizzonte dello spazio timico che si innestano le possibilità di una destrutturazione dello spazio vissuto. Con puntuale aderenza alla clinica e alle sue declinazioni nella storia di ciascun paziente (malato, nella dizione originale del tempo), Binswanger ne esplora il mondo e descrive le forme espressivo-simboliche di un sentire assolutamente personale e non condivisibile collocando l’origine della sofferenza nella rottura dell’unità dialettica tra Io e mondo. Mentre sottolinea il ruolo tematico della spazialità nella schizofrenia e nella mania, si dischiudono metafore che sembrano attingere ad una sorta di regime notturno dell’immaginario: la caduta, l’oscurità, l’ottenebramento, il restringimento, il vuoto, fino a trovare un’estrema unità di senso in una specie di animazione magicodemoniaca dello spazio, come nell’esperienza allucinatoria del paziente schizofrenico, che vede e sente i binari del tram salire nella sua stanza e penetrare nella sua testa. Di queste esperienze egli difende la tipicità, quando dice che in realtà i pazienti affetti da fuga delle idee si muovono nello spazio «… solo diversamente da noi, e questa diversità siamo abituati a giudicarla e a descriverla in senso morale come mancanza di tatto, impertinenza, sfacciataggine».
La riflessione di Binswanger, di rigorosa fondazione antropofenomenologica, è sostenuta da una coerente tessitura di metodo. La dichiara quando afferma che neurologia e psicopatologia sono complementari l’una all’altra, così come i disturbi dello spazio orientato sono la chiave di comprensione degli aspetti psicopatologici: «… Per lo psicopatologo non deve né può esserci alcuna separazione tra gli eventi cerebrali “solo neurologicamente” rilevanti e quelli dotati di una certa importanza a livello psichiatrico». Più oltre dirà: «… Il metodo d’indagine con cui oggi approcciamo la schizofrenia e la follia maniaco-depressiva (…) è molto vicino ai metodi di indagine dei malati organici in senso stretto. In fondo, si tratta proprio dello stesso metodo: noi ricerchiamo le alterazioni fondamentali concernenti le modalità di confronto tra Io e mondo, a partire dalle quali bisogna rendere comprensibili le alterazioni all’interno delle singole sfere dei vissuti esperienziali».
E supera confini angustamente disciplinari quando, dopo aver toccato i limiti della prospettiva organicista, allunga lo sguardo alla dimensione antropologica: «… Bisogna sempre tenere presente che la possibilità di una localizzazione biologica e, in particolare, cerebro-fisiologica non rende affatto superflua una considerazione antropologica relativa all’essenza dei fenomeni in oggetto, anzi».
Una preoccupazione tuttavia lo coglie quando, addentrandosi nell’analisi dello spazio timico, è costretto ad allontanarsi dalle scienze della natura e ne teme il disprezzo. Ed è la sperimentata relatività delle categorie scientifiche rispetto a questo ambito tematico che lo costringe a far riferimento all’ampio background filosofico, tanto metodologico che conoscitivo, alla ricerca di un punto di saldatura tra Io e mondo. «… Questa necessità di fare riferimento a problemi filosofici fondamentali è l’espressione del fatto che un ampliamento ed un approfondimento dei fondamenti di una scienza empirica non sono possibili senza imbattersi in questioni eminentemente filosofiche».
Ad Aurelio Molaro, filosofo e storico della scienza, profondo conoscitore dell’opera di Ludwig Binswanger, va il merito della traduzione impeccabile di un testo complesso per gli aspetti tecnici, linguistici e le ascendenze filosofiche e culturali. Ne è un esempio l’analisi semantica del termine chiave Gemȕt, come sintesi di assoluta matrice fenomenologica ed ispirazione agostiniana tra la soggettività conoscente ed il dato oggettivo-conoscitivo. La relazione è incastonata tra un vero e proprio saggio introduttivo, che puntualmente la contestualizza nel percorso biografico-formativo di Binswanger tracciando gli influssi dello straordinario ambiente scientifico europeo della prima metà del Novecento, ed un rigoroso ed esteso apparato di note storicocritiche.