Recensioni / “Sono una scimmia al volante”. Dialogo con Guglielmo Sputacchiera (pardon, Alberto Ravasio)

Con Alberto Ravasio, autore di La vita sessuale di Guglielmo Sputacchiera, Quodlibet, non ci ho mai parlato. Gli ho scritto. Ha preferito le risposte incontrassero le domande in forma scritta via mail perché la cura verso la scrittura in Ravasio si prolunga oltre l’opera letteraria, ed è stata questa sua cura verso la lingua, il lavoro sulla lingua, il dotarla di nuovi inneschi, ad avermi attratto del suo romanzo. La lingua nel romanzo di Ravasio ne è protagonista quanto lo è Sputacchiera, tramata com’è nelle frasi che diventano la storia, che è tanto quella delle peripezie di Guglielmo Sputacchiera, personaggio doppiamente tragico perché comico certamente non volendolo, quanto quella della lingua con cui le peripezie vengono raccontate e che è una peripezia a sua volta. Per quanto il dubbio mi sia venuto che la lingua con cui è scritto il romanzo sia più l’antagonista di Sputacchiera, eroe mica tanto. Dire di uno scrittore che scrive è dire l’ovvio, ma l’ovvietà ha ormai perso del tutto il suo status symbol. (a.c.)

Dal romanzo: “Restano solo due alternative: o muori di fame e di sogni o mangi abbastanza a lungo, nel piatto in cui sputi, da diventare tuo padre”. Il padre non si era dato per morto?
In Sputacchiera l’antagonismo verso il padre non riguarda il possesso carnale della madre ma l’immobilità sociale. Se per i ventenni e i trentenni e gli ormai quasi quarantenni la piena indipendenza economica è impossibile si innesca un meccanismo di risentimento generazionale. In un contesto postideologico l’unico potere reale è il denaro, ma dato che il lavoro è finito o è comunque più rocambolesco l’unico denaro sicuro è quello dei padri, cioè il risparmio privato, i presunti sacrifici dei miracolati economici del secondo dopoguerra. Tornando alla letteratura, per assurdo il romanzo ottocentesco è più contemporaneo del novecentesco perché la società in cui viviamo somiglia molto a quella di un Bel Ami o di un Julien Sorel dove le caste socioeconomiche sono fisse e uno non si fa mai da solo a meno che non si faccia la figlia di quello che si è fatto da solo.

Tutto inizia con una metamorfosi. Per un uomo diventare donna è un capovolgimento più radicale del diventare insetto?
Fortunatamente l’insetto era già stato preso da uno molto più bravo di me e quindi non mi sono trovato di fronte al dubbio amletico, genitale, tassonomico. Rispetto alla metamorfosi in donna per quel che ne so io la transessualizzazione di Sputacchiera è un discorso sulla virilità indagata per assurdo, un po’ come fa Roth (Philip) nel Seno, racconto della senificazione di un erotomane che un giorno si sveglia cieco e sordo e muto e tetta ma continua imperterrito a implorare la fidanzata di scopare sedendosi sul suo capezzolo fallico.

A Guglielmo Sputacchiera la metamorfosi salva la vita, smottandogli quella che ha. Quasi un’occasione di felicità, stando alla definizione di Aldo Busi per il quale la felicità è “uno stato di moto a luogo con sosta brevissima”.
La fuga di Sputacchiera è molto circoscritta, quasi cricetesca, dopotutto lui fa un viaggio in treno da Bergamo a Milano di quaranta, quarantacinque minuti se tutto va bene. Il cosmopolitismo bolañianomi sarebbe tanto piaciuto, ma purtroppo sono un pantofolaio, mi perdo subito, sono una scimmia al volante e non ho gli strumenti aneddotici per scrivere di, poniamo, Parigi, anche se, a mio avviso, per un italiano presunto aspirante scrittore c’è più letteratura potenziale a Sommacampagna o a Pieve di Fosso che sulla tomba di Baudelaire, ormai troppo affollata bibliograficamente.

Come fanno a stare assieme la vivacità intellettuale di Guglielmo Sputacchiera e l’inconcludenza della sua condizione esistenziale? È sempre tutta colpa di un fuori, di un contesto socioeconomico, ergo politico, inospitale?
Rispetto alla dicotomia tra dentro e fuori, interiorità e superficie, mi viene in mente un bel racconto di Cornia contenuto in un volumetto dal titolo Sulle tristezze e i ragionamenti, per Quodlibet. Cornia osserva che spesso le donne quando si innamorano dicono di conoscerti meglio di chiunque altro, dicono di sapere cosa hai dentro, cosa nascondi nel cuore, nei polmoni, in tasca. Ma qui Cornia, rovesciando l’ovvio, scrive che in realtà tutta questa profondità è sopravvalutata, gira e rigira gli oscuri segreti e i traumi sono sempre gli stessi. La profondità è superficiale mentre la superficialità per assurdo è profonda, perché è comune, potenzialmente universale, e più sociologica, antropologica e ha peso politico. Ecco, aggiungerei io, che in una narrativa italiana fondata perlopiù sulla pornografia delle emozioni l’analisi quasi saggistica del fuori, come quella di un Pecoraro, è molto più sovversiva e autenticamente letteraria rispetto all’ennesima e ricattatoria autoscopia del dentro.

Nel romanzo s’avverte la eco anche di un altro grande personaggio ottocentesco, l’uomo del sottosuolo di dostoevskiana memoria. Quanto c’è anche in Sputacchiera della lussuria dell’umiliazione?
Il piacere della voluttà credo sia presente nell’uomo da sempre, da Adamo, Eva, Caino, Abele e tutte le altre scimmie nude. Di certo accanto a Memorie del sottosuolo un altro titolo che Sputacchiera potrebbe infilare nel trolley monoruota è appunto Al di là del principio di piacere. Sempre su Memorie trovo molto interessante come Dostoevskij gestisca il piacere del dispiacere. Mentre Sade e Masoch descrivono quasi enciclopedicamente tutte le pratiche di masochismo e sadismo psicosessuale, Dostoevskij fa il vago, dice che la notte i personaggi vanno a imbruttirsi, a dare il loro peggio, ma non è mai chiaro in cosa consista questo peggio e ogni lettore ci mette il peggio che vuole, peggiorandolo, un po’ come quando Kurtz in Cuore di tenebra dice «l’orrore l’orrore».

Particolarmente crudele e indovinata per forza sintetica ho trovato la definizione di decoro dell’irrilevanza, perseguito dagli abitanti del paesello stercoso. La metamorfosi più inquietante, invisibile in quanto ovvia, è quella patita dalla società-tipo da cui Sputacchiera prova a venir fuori transessualizzandosi?
Sul perché Sputacchiera si transessualizzi io non ho una risposta, il testo ne dà molte e tutte confuse, ma credo sia giusto così. Dopotutto in letteratura di solito prima viene il sintomo e poi la diagnosi, prima Edipo e poi il complesso di Edipo. Lo stesso Freud sosteneva che la psicoanalisi era già contenuta in tutta la letteratura precedente e che lui si era limitato a darle i casi clinici, cioè un po’ di presunta scientificità.

“Forse è tardi per tutto, ma non per scriverne” è il consiglio che Sputacchiera riceve dal suo unico amico forse ex. È un buon consiglio?
Quella frase ovviamente è una cosiddetta verità romanzesca, non esce dal perimetro del libro, e riguarda la scrittura come autoanalisi e non come ascensore mediatico, mentre se dovessi estendere il consiglio all’extratestuale, alla famigerata vita, direi che con la scrittura a sfogo editoriale uno alla fine viene amato ma a distanza e fuori tempo massimo. Poi ogni vicenda psicopatologica è diversa e il consiglio magari funziona per chi lo riceve e non per chi lo dà. Ad esempio lo stesso Guido Coprofago, la persona da cui ho tratto il personaggio, di recente ha deciso di farsi a sua volta autore, si è messo a scrivere con entrambi i piedi, ha inviato il suo manoscritto di odio indifferenziato a varie capanne editrici e in cambio al momento ha ricevuto soltanto rifiuti, sia scritti che spazzaturistici, e bergmaniano silenzio di dio.

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