Recensioni / Paul Bley. Alchimista del jazz

«Non c’è niente di più difficile che spingere una musica ad andare al di là dei propri limiti. Io lo so, perchè ci ho provato».Le parole del pianista canadese Paul Bley sono emblematiche della personalità di questo musicista mercuriale, che durante la sua lunga carriera ha attraversato molti stili diversi, spesso anticipando di decenni tendenze stilistiche che poi sarebbero state assorbite nel linguaggio più mainstream da musicisti diventati maggiormente celebri; un esempio per tutti è quello di Keith Jarrett, che da ragazzo ascoltava gli album di Bley sino a saperli a memoria e ha successivamente introiettato lo stile di Bley alla perfezione prima di costruirsi un linguaggio maggiormente autonomo. Adorato nel mondo dei musicisti ma non particolarmente noto al grande pubblico, Bley è un autentico precursore dell’idea di sintesi linguistica che nel panorama contemporaneo ha assunto ormai una rilevanza centrale.
La collana “Chorus”, pubblicata dall’editore Quodlibet e curata da Fabio Ferretti, è senza dubbio tra le più belle del panorama italiano: interamente dedicata al jazz, dopo averci deliziato con volumi sull’Art Ensemble of Chicago, Louis Armstrong, Miles Davis e Jelly Roll Morton, ora porta in libreria Liberare il tempo, magnifico libro scritto da Bley assieme al contrabbassista e scrittore David Lee. È difficilissimo inquadrare questo musicista in una qualsiasi definizione precisa: chi è Paul Bley?
Il pianista che fin da giovanissimo suonava negli anni Cinquanta con Lester Young, Roy Eldrige, Carmen Mc Rae e aveva una band con grandissimi solisti come Jackie McLean, Donald Byrd, Doug Watkins, Art Taylor? Il virtuoso che padroneggiava la sintassi post-bop con tecnica impeccabile e swing magistrale nel suo album d’esordio realizzato assieme a due giganti come Charlie Mingus e Art Blakey? Il distillatore di suoni astratti che militava nel trio angoloso con Jimmy Giuffre e Steve Swallow? L’innovatore di strutture che assieme a Ornette Coleman e Don Cherry scardinava le consuete forme della tradizione jazzistica? L’artista che dipingeva scabri paesaggi sulla tastiera nei dischi memorabili realizzati per l’etichetta ECM, come Open, to love e Ballads? Oppure il musicista, ormai indiscusso padrone di note spazi e silenzi, che negli anni Novanta inanellava un disco più bello dell’altro assieme al contrabbassista Gary Peacock e al batterista Paul Motian?
Bley è tutto questo e molto altro.
Si è dedicato alla sperimentazione con i sintetizzatori e l’elettronica alla fine degli anni Sessanta, ben prima di tutti gli altri musicisti americani e senza cadere nelle trappole commerciali di troppa fusion da supermercato, si è occupato di multimedialità lavorando al rapporto tra musica e video con la moglie Carol Goss, è stato un discografico, insieme a figure come Bill Dixon, Archie Shepp e Roswell Rudd ha lavorato nel Jazz Composers Guild, organizzazione che tentava di difendere gli interessi dei musicisti di avanguardia sperimentale e organizzava concerti di musica completamente fuori dal mercato discografico tradizionale.
Sollecitato delle conversazioni con David Lee, nel libro Bley racconta numerosi aneddoti assai gustosi riferiti al suo primo periodo newyorchese, come quando si trovò a fare da autista a Charlie Parker da casa fino ai luoghi dei concerti per evitare che si perdesse lungo la strada, o quando si trovò con il suo gruppo in un locale malfamato il cui nome Bucket of blood (secchio di sangue) era tutto un programma: il pubblico alla fine della loro esibizione si mise in cerchio attorno al palco e disse ai musicisti che non sarebbero andati proprio da nessuna parte ,dovevano continuare ben oltre il tempo stabilito. «Eravamo una band che sapeva il fatto suo – scrive Bley – e capimmo subito che con un pubblico del genere non c’era altro da fare che riprendere a suonare».
riprendere a suonare».
Molto divertente anche l’episodio che riguarda la residenza del trio di Bley al Basin Street East, un club che aveva messo i giovani musicisti a confronto con un colosso del jazz come Louis Armstrong. Il linguaggio musicale del trio non aveva proprio nulla a che fare con quello del popolarissimo trombettista, che ovviamente faceva scintille al botteghino e attirava folle di fans sfegatati; quando Bley chiese al propietario del club come mai avessero scelto proprio lui per suonare assieme ad Armstrong, si sentì rispondere: «Avevamo bisogno di qualcuno che svuotasse il locale tra un set e l’altro». Al di là di queste curiose storie, di cui il libro è ricco, il volume è una lettura fondamentale per chi ami il jazz e la musica del Novecento in generale, perchè la figura di Bley (che a distanza di sette anni dalla sua scomparsa continua a essere tanto influente nell’ambiente musicale quanto misconosciuta dal pubblico) si staglia sopra molti dei suoi contemporanei per intelligenza, bravura e lucidità di pensiero. Dotato di una tecnica assai fluente fin dagli esordi, non ha mai usato queste doti in modo circense o superficiale e con l’andar del tempo ha sviluppato un gusto molto personale per i contrappunti interni assieme a una ricchezza armonica che ha pochi paragoni tra i suoi contemporanei. Il suo pianismo si è progressivamente asciugato fino a spingersi sulla soglia del silenzio, con cui Bley ama dialogare attraverso frasi in cui ogni nota ha un carico emotivo particolare e una ricchezza di significato che va completamente oltre ogni definizione stilistica. Un disco come Improvisie, del 1971, presenta molte più affinità con i lavori di Stockhausen e Cage (si ascoltano echi di Mantra e Cartridge Music) che con il jazz tradizionalmente inteso. Le sue improvvisazioni free su strumenti elettrici hanno molte cose in comune con le partiture elettroniche di Morton Subotnick e ascoltando alcuni dischi di solo pianoforte come Play Blue e Solo in Mondsee le figure estremamente chiare disegnate sui tasti da Bley e le armonie continuamente cangianti non si discostano troppo da quelle di un compositore come William Duckworth.
Molto probabilmente questi paragoni non sarebbero piaciuti a Bley, che nel libro non risparmia ampie dosi di sarcasmo sul mondo dei «compositori seri», con i quali sembra avere quasi una questione personale. Li descrive come «davvero tristi», critica la loro tecnica di elaborazione musicale prolungata nel tempo e dice che un compositore classico altro non è che «un musicista che non sa suonare in tempo reale». Giudizi così approssimativi e inesatti farebbero francamente cadere le braccia se non provenissero da un autore che nella realtà dei fatti ha dimostrato di saper comportarsi musicalmente in maniera tutt’altro che superficiale (a differenza di queste sue affermazioni).
Ampio spazio viene giustamente dedicato da Bley alle sue compagne artistiche e di vita: la moglie Carla, una delle figure più importanti del jazz moderno come compositrice e bandleader, e Annette Peacock, a sua volta straordinaria vocalist, compositrice e improvvisatrice. Confrontarsi continuamente con artiste dalla personalità così forte ed originale ha certamente contribuito a stimolare la creatività di Bley, facendogli riconsiderare a ogni passo le proprie scelte estetiche, in un dialogo continuo caratterizzato sempre da un rifiuto da scelte facili e scorciatoie commerciali, sempre all’insegna dell’intensità assoluta all’interno delle proprie concezioni musicali. Fino gli ultimi anni di vita Bley ha continuato a suonare il pianoforte a livelli altissimi; la sua discografia è ampia ma sempre di qualità, difficilmente troverete un album di Bley in cui non ci sono momenti interessanti o dove il musicista si abbandoni alla routine; le sue antenne musicali erano sempre sintonizzate su un mondo di costante immaginazione. Come scrive nella nota introduttiva al libro il pianista e compositore jazz Antonio Zambrini (tra i migliori in attività oggi in Europa) la figura di Bley «era un faro, una guida dentro e oltre la tradizione del jazz, un modello di rigore estetico».

Recensioni correlate