Mi occuperò, oggi,
di un'opera prima
risalente in realtà
al 2022. Se lo faccio, non è solo perché in questi giorni La fuga di Anna
di Mattia Corrente si è guadagnato una certa attenzione nella selezione finale di alcuni premi, ma
anche perché il libro, edito da Sellerio, intraprende in un certo qual
modo una strada autonoma, che
merita l'analisi.
In prima istanza, potremmo dire che il libro si pronuncia sulla
scia segnata, in linea ideale, dal
Proust della Recherche e dall'ultimo incompiuto Svevo, laddove la
scrittura si declina come vettore
di memoria, e la narrazione come
inchiesta sul passato. Ma con quale tecnica? E evidente che il ricordare istintivo di Proust, così estemporaneo, freudiano, associativo
(diremo in un certo qual modo perfino meccanico, se ciò non squalificasse il bagliore dei suoi lampi) si
oppone al procedere catalogativo,
archiviale, de Il vegliardo. Sono in
fondo due paradigmi antitetici
nel modo di trattare letterariamente la memoria, da cui discende che il primo proceda per improvvisi squarci di giovinezza rediviva, mentre il secondo impone la
copresenza di un io-attuale e di un
io-trascorso, un po' come per il
Krapp beckettiano. Ancora, nel
primo caso l'ebbrezza del ricordo
offre lo slancio di un riscoperto vigore dei sensi che magari può perfino dischiudere la passione per
una fanciulla, come nel Goethe di
Marienbad o L'animale morente di
Roth. Viceversa - ed eccoci al caso
dell'opera di Mattia Corrente -
l'approccio esemplificato dall'ultimo Svevo implica che il tono sia
inevitabilmente più melanconico,
crepuscolare, e il passo quello di
un'inchiesta sul senso del passato.
La fuga di Anna è in sostanza appunto questo: un'inchiesta sul senso del passato. Lo è concretamente, perché il vegliardo Serafino decide un giorno di lasciare la sua
Stromboli per dedicarsi a un viaggio che è un'indagine, alla ricerca
di ciò che non ha mai compreso
sulla moglie Anna e la sua fuga. E
insomma un Nathan Zuckerman
che invece di girare per le strade
rettilinee di New York tratteggia il
suo rabdomantico itinerario fra i
colori e gli odori di una Sicilia così
reale eppure così volutamente sovresposta, quasi fosse a tratti una
landa nordica bruciata da un sole
onnipresente, in cui i ricordi si accumulano e affastellano, cosicché
a momenti sembra di rileggere
Giù la piazza non c'è nessuno di Dolores Prato.
Qui sta a mio vedere l'interesse
del libro, qui la sua forza. Il plot
non sarà forse così originale nel
proporci ancora l'espediente del
viaggio, ma è innegabile che il romanzo di Corrente trovi una sua
luce nell'alternare i punti di vista,
nell'arruolare personaggi, nello
screditare 'i comprimari, confondere i piani e le versioni dei fatti
come piacerebbe all'Alice Munro
di The bear came over the mountain, oppure complicare la linearità teorica dell'assunto con gli arabeschi di un'Odissea ribaltata, in
cui Ulisse lascia Itaca per ricongiungersi a una Penelope fuggitiva, creatura del passato e del presente, entità reale (dotata di una
memoria propria, come a matrioska) eppure a momenti impalpabile al pari di una Dulcinea. A fare la
differenza è dunque il fatto che
Corrente sappia reggere la barra
del timone, cosa che fa con promettente consapevolezza, mantenendo l'ispirata misura distintiva
di uno stile che tradisce un metodo, dacché la narrazione si orchestra in una continua suite di confessioni, confidenze e confutazioni su quel magmatico materiale
umano che è il nostro ieri. Il proposito non è privo di ambizione, ma
l'autore se ne mostra all'altezza,
con il valore aggiunto di incastonare qua e là pregevoli gemme come
nella toccante descrizione della
primissima infanzia di Anna, con
un'intensità che a me ha evocato
Knut Hamsun, e mi basta a convenire con l'editore Sellerio sulla
scelta di pubblicare il testo. Anche perché, sorridendo, tocca rilevare che fra tanti (troppi) testi di
iniziazione giovanile alla vita e all'amore, qui se non altro ho respirato il guizzo liberatorio di un'escursione in geriatria. Lode sempre sia, a chi deraglia dalla strada
maestra.
E proprio perciò, fra i finalisti
dei premi di cui parlavamo in apertura, lode sia ad Alberto Ravasio
di cui Quodlibet pubblicò l'esordio La vita sessuale di Guglielmo
Sputacchiera. Non ho finora trovato, nel 2023, un debutto sulla scena letteraria che competa con
quello di Ravasio per il tono canagliesco, eversivo, guascone, eppure intriso di una sorniona consapevolezza, talmente ambiziosa da
emulare spudoratamente Kafka
sulla falsariga del ragionier Ugo
Fantozzi. Già basterebbe a porre
Ravasio, con queste sue pagine alla Nikolaj Erdman, una spanna sopra il livello medio, ma l'autore riesce anche a plasmare uno stile tutto suo, e con esso un immaginario
che si nutre di Testori, Salvatores,
Aldo Busi e non ultimo lo squallore (non romanesco, bensì lombardo) dei fratelli D'Innocenzo. Se cito l'opera prima di Ravasio, è perché nel suo modus così spiazzante, essa tratta dell'improvvisa trasformazione del protagonista in
una femmina: ribaltate il percorso
da donna a uomo e avrete Il cielo
d'erba, romanzo di esordio di Gianfranco Vergoni per Longanesi.
Qui però il passo è completamente diverso, perché l'autore sceglie
la cifra dell'intimità, addentra lo
scandaglio fra le pieghe della carne, laddove più insondabile è la
materia di cui siamo costituiti. E
evidente che ci troviamo quindi
anni luce lontano dal caterpillar
iconoclasta di Ravasio, e legittimamente Vergoni attinge al suo artigianato drammatico per esplorare fremiti, palpiti e abissi di un corpo che muta. A mio avviso, l'opera
non manca di rivelare un'ispirazione autentica, anche prodroma di
certi squarci di appassionata intensità, ma nel farlo è come se cercasse l'alloro del pionierismo, quasi il tema non avesse precedenti.
Nel leggerla non ho potuto non
pensare che sessant'anni sono trascorsi da Le signore sirene di Giò
Stajano, e oltre quaranta da quando Annibale Ruccello emozionava
(e scandalizzava) con Le cinque rose di Jennifer. Forse per questo
Creatura di sabbia di Tahar Ben
Jelloun o Kitchen di Banana Yoshimoto riescono ad appassionarci
per come declinano la stessa trasformazione con un impianto narrativo personalissimo e soluzioni
inattese.
Vergoni confeziona quindi con
cura una storia di cui ad ogni pagina mostra di soppesare l'importanza, ma a noi è lecito attendere
un passo letterario più coraggioso, mentre constatiamo che quasi
nessuno ha menzionato il settantesimo anniversario di Fabrizio Lupo di Carlo Coccioli.