La costruzione di un discorso storico letterario che sia insieme rendicontazione e interpretazione di
avvenimenti e personaggi è sempre un’impresa ardua, soprattutto quando il periodo in questione è
già stato ampiamente studiato. Grazie all’uso meticoloso e articolato della sociologia di Pierre
Bourdieu, questo libro riesce invece a movimentare le controversie letterarie di un lungo arco
temporale, ricostruendone la plastica dinamicità. Partendo nel 1902, con l’uscita dell’Estetica di Croce, per arrivare al 1936, anno degli ultimi numeri della rivista «Solaria», il libro
ricostruisce le vicende, spesso avvincenti e tortuose, dei protagonisti del campo letterario italiano.
Scevri da ogni aura di magnificata canonizzazione, i vari autori appaiono ferocemente impegnati in
una lotta per la pubblicazione e la legittimazione.
Partendo da Croce e dal suo monopolio del campo letterario attraverso la filosofia e la casa editrice
Laterza, il primo capitolo (1902-1919) delinea le dinamiche dei due gruppi rampanti del primo
Novecento: i futuristi, con al centro Marinetti, e i fiorentini de «La Voce». Già a questa altezza, è
possibile notare quali sono le regole che disciplinano il campo: le alleanze in gruppi si formalizzano
in riviste, come «Il Leonardo» di Papini e Prezzolini o «Poesia» di Marinetti, che catalizzano la
collaborazione di futuri critici ed autori come Borgese o Cecchi. Assieme agli aspetti storici, il libro
prova a delineare la ricaduta formale di queste diatribe letterarie, dedicando una parte di ogni
capitolo alle forme praticate da coalizioni di autori e mettendo in contrasto le scelte formali della
letteratura commerciale con quelle della letteratura considerata alta.
Nel primo capitolo, ad esempio, accanto alla squalifica del romanzo, percepito come genere
commerciale, vengono promossi il frammento lirico e autobiografico da «La Voce» ed il
paroliberismo o il teatro-performance con i futuristi. Questa tendenza, in effetti, perdura ancora nei
primi anni Venti, come spiega il secondo capitolo, che si concentra su «La Ronda» e i suoi
animatori. I vari fondatori di questa rivista, infatti, vengono qui presentati non solo come grandi
animatori culturali, ma anche nel loro tentativo (riuscito) di imporre la prosa d’arte – letteraria o
filosofica – come genere legittimo. Se però molte riviste, fra cui la milanese «Il Convegno», si
adeguano a questa tendenza, si distingue per la sua eterodossia la figura di Borgese, la cui battaglia
per il romanzo continua, sia come autore che come critico, fino ai primi anni Trenta.
Mentre ciò avviene, il campo letterario italiano viene scosso dal terremoto del fascismo, che, come
il terzo capitolo Modernismo fascista e modernità italiana (1925-1929) mostra bene,
scombina ruoli e i posizionamenti dei vari artisti. In effetti la relazione fra intellettuali e fascismo
non è regolata aprioristicamente, ma si stabilisce volta per volta, declinandosi in vario modo in base
al momento storico ed all’autore in questione. Abolendo una polarità fra antifascismo e fascismo
intellettuale, il libro propone una lettura socialmente complessa del fenomeno, dove gli autori,
sebbene obbligati ad intrattenere un certo grado di adeguamento alle politiche culturali del partito,
potevano usare la propria posizione come arma nei conflitti letterari. Così avverrà, ad esempio, nel
caso del modernismo fascista, rappresentato da Bontempelli e dalla rivista «900». Lo scrittore,
godendo di un’amicizia personale con il Duce, si propone di rinnovare la letteratura italiana,
facendo della propria rivista un ponte transnazionale attraverso l’immissione delle novità d’Oltralpe
in Italia, quando queste erano già canonizzate nella capitale letteraria mondiale Parigi. Questa
operazione, proprio per le pretese di monopolio letterario che implica, viene prontamente sabotata da Ungaretti
e dal fronte strapaesano de «Il Selvaggio» di Maccari e de «L’Italiano» di Longanesi. Questi ultimi,
accusando «900» di cosmopolitismo, si fanno invece promotori di una modernità radicata nella
provincia e nelle tradizioni della penisola. Questa disputa mostra con chiarezza che il regime, per
meglio controllare la cultura, preferisce costituirsi parte terza nella risoluzione dei conflitti, senza
entrare tout court nelle questioni letterarie. In questo senso, un importante ruolo giocano
l’istituzione dell’Accademia Reale d’Italia e la fondazione di premi letterari che consentono una
rapida e sicura canonizzazione. Anche queste forme di controllo indiretto, tuttavia, non riescono a
garantire stabilità di successo a chi le ottiene e l’esempio del modernismo fascista è lampante. La
rapida canonizzazione di Bontempelli ha infatti vita breve perché, nel frattempo, emergono la
rivista «Solaria» e una costellazione di nuove case editrici, fra cui Bompiani e Mondadori, che,
rivoluzionando la struttura produttiva del libro, sono destinate a stravolgere anche il panorama
letterario italiano.
Con il 1929, che inaugura il quarto e ultimo capitolo, inizia quella che giustamente viene definita
«la battaglia per il romanzo». Passando in rassegna le traiettorie di Svevo, Moravia e Vittorini,
viene mostrato come progressivamente il romanzo eroda legittimità e valore agli altri generi
letterari, tanto per il ruolo sociale che riveste quanto per le sue caratteristiche intrinsecamente
letterarie. Grazie alla considerevole quantità di autori stranieri che vengono immessi sul mercato
dalle nuove case editrici – periodo che, precisando la celebre frase di Pavese, viene definito il
«quindicennio delle traduzioni» – si impone l’urgenza di tentare un romanzo realista italiano.
Accanto a «Solaria», che nei primi anni Trenta risulta centrale grazie a Montale, Vittorini e alla loro
rete intellettuale con le città del Nord, un’altra avanguardia romana si fa avanti, sensibile agli aspetti
sociali e ad un romanzo collettivo, secondo i modelli di Döblin e Dos Passos. Nonostante questa
proposta venga promossa dagli stessi editori, come Bompiani, finisce per passare in sordina, e la
celebre rivista fiorentina continuerà a dettare legge, promuovendo, come forma letteraria, un tipo di
prosa lirica ispirata a Proust ed al romanzo psicologico. La capacità di «Solaria» di farsi perno della
vita letteraria del paese senza compromettersi troppo con la politica le permetterà di promuovere i
suoi collaboratori anche al di là del fascismo, nel Secondo Dopoguerra.
Dopo la caduta del regime, il neorealismo, immemore degli esperimenti del romanzo collettivo e
sociale dei primi anni Trenta, si fonderà in effetti proprio sulle esperienze letterarie dei solariani,
interpolate con i temi derivati della guerra partigiana. In questo contesto, essere stati o meno collusi
con il regime comporta un ostracismo piuttosto sistematico, come dimostra il caso di Bontempelli,
relegato ai margini del campo letterario. Il gruppo di «Solaria», invece, insieme agli einaudiani,
riceverà una canonizzazione piuttosto sistematica e diffusa, che si comprende meglio anche alla
luce degli avvicendamenti politici postbellici.
Proprio perché si chiude su queste linee di continuità e discontinuità fra fascismo e dopoguerra, il
libro presenta una fine sospesa, conscia della faziosità di ogni rigida periodizzazione. Trattandosi di
una storia sociale, essa si proclama aperta perché vuole essere rispettosa fino in fondo della
dinamicità e della continuità delle relazioni umane. Grazie a questo approccio, il libro istruisce
indirettamente anche sulla mole di lavoro necessaria per ricostruire la materialità di queste relazioni
umane nel tempo, e su quanto, d’altra parte, valga la pena provare a farlo. Grazie ad una scrittura
agile e piacevole, corredata da tavole che mettono a fuoco in modo preciso personaggi, opere
principali e repertori dei vari gruppi letterari, il libro è anche uno strumento di rapida consultazione
per le traiettorie dei vari scrittori nella storia. Ed in effetti qui risiede, a mio avviso, uno dei pregi
più trasversali di A regola d’arte, ovvero la possibilità di entrare nel percorso di vita di scrittori noti,
quando tali ancora non erano ma provavano a diventarlo.