Recensioni / Elena Porciani, Il tesoro nascosto. Intorno ai testi inediti e ritrovati della giovane Elsa Morante, con sei storie e una poesia dell’autrice

Con il suo ultimo libro, Elena Porciani aggiunge un tassello importante nel panorama degli studi dedicati a Elsa Morante. Innanzitutto, questo lavoro si può considerare sia come una prosecuzione del discorso molto ben delineato dalla studiosa nel suo L’alibi del sogno nella scrittura giovanile di Elsa Morante (2006) ma anche come parte di un trittico completato dall’altro volume morantiano di Porciani, ovvero Nel laboratorio della finzione. Modi narrativi e memoria poietica in Elsa Morante (2019). È una ricerca critica, dunque, che oltre a testimoniare una indiscussa e lunga fedeltà, ha anche il merito di portare costantemente all’attenzione una serie di aspetti e di problematiche (siano esse interpretative che filologiche) di primaria rilevanza nell’ambito di una conoscenza più precisa e approfondita della scrittura di Elsa Morante. Indagini simili, oltre a riportare alla luce dei materiali dispersi o inediti, permettono di constatare più da vicino come la produzione giovanile dell’autrice sia sempre più significativa nel far vedere in trasparenza degli elementi e dei motivi che verranno costantemente richiamati e sviluppati nel lungo corso della carriera morantiana. Ciò che emerge, dunque, è la dimostrazione dell’esistenza di un lavorio lungo ed articolato, un percorso che – come quasi tutte le scritture giovanili denotano – non è privo di tortuosità, ripensamenti, tentativi e punti di svolta («di fronte alla produzione giovanile, si ha l’impressione di una sorta di filiera narrativa che, attraverso una travagliata sperimentazione di forme e modi di scrittura […] perviene a Menzogna e sortilegio e oltre», pp. 16-17). Così come era accaduto per L’alibi del sogno, Porciani riesce a delineare i sommovimenti di un magma ancora incandescente, com’è appunto la scrittura della giovane Morante, e offre delle coordinate ben definite per future ricerche e studi volti a fornire una sistemazione (sia interpretativa che filologico-editoriale) della così detta “preistoria” morantiana, momento che – alla luce di queste acquisizioni e di altre che in un certo qual modo hanno affrontato aspetti simili – può essere oggi considerato una vera e propria storia, con tanto di tracce evidenti e ben collocabili all’interno della parabola di una delle scrittrici più importanti della nostra letteratura.
Entrando più dettagliatamente nell’architettura del libro, nelle parti iniziali Porciani propone degli spunti che funzionano come delle coordinate generali per orientarsi all’interno di una fase creativa e scrittoria dell’autrice che è ancora in via di sviluppo. I ritrovamenti di materiali dispersi e la donazione di nuove carte alla Biblioteca Nazionale Centrale di Roma hanno permesso di ripartire in maniera più sicura la prima stagione morantiana: un’arcata che va dal 1931 al 1935, e che vede l’autrice impegnata nella scrittura di storie per bambini o di pagine caratterizzate da un tono romanzesco e sentimentale; il periodo mediano, tra il 1936 e il 1938, segna una prima svolta, ma – essendo caratterizzato da toni vicini a quelli del romanzo fantastico-psicologico – presenta diversi margini di incertezza realizzativa, pur restando molto interessante e degno di una attenzione ramificata sul piano del contenuto; l’ultimo momento, quello del biennio 1939-41, segna invece una prima testimonianza di maturità dell’autrice, probabilmente dovuta anche ad una pratica pressoché quotidiana della scrittura, ormai diventata per Morante il principale mezzo di sostentamento. I primi materiali analizzati criticamente e filologicamente da Porciani sono quelli relativi a cinque brevi storie pubblicate sulla rivista «Balilla», una poesiola apparsa sul «Corriere dei piccoli» e una storia edita sul «Cartoccino dei piccoli». Accostando e facendo dialogare i diversi testi, gli elementi principali che emergono sono una certa capacità della giovane autrice di combinare in modo originale alcuni tra i più comuni stilemi delle fiabe e un’iniziale definizione di motivi che diventeranno ricorsivi nella fase più matura. Oltre alla capacità “manipolatoria” del materiale fiabesco, in queste prime prove si rende evidente come l’autrice insista anche su alcuni temi altamente caldeggiati dal contesto fascista, specialmente relativi agli intenti pedagogici della letteratura per l’infanzia.
In sostanza, è come se Morante stia ponendo delle basi – per quanto ancora sfumate – con le quali riuscirà a far risuonare pagine che saranno contenutisticamente molto distanti da queste prime prove. Uno stato di cose simile viene ampliato da un documento inedito donato alla BNCR nel 2016, Il mio straordinario viaggio in cerca di Billi, il quale va datato tra il 1933 e il 1934, come testimoniano degli indizi presenti sia nell’epistolario tra Morante e Luisa Fantini, che nella pubblicazione di una poesia (La ninna nanna del piccolo Billi) edita sul «Corriere dei piccoli» nel giugno del 1934. La particolarità dell’inedito in questione è che «come in altre storie per bambini del periodo, si nota la transizione dalle atmosfere miserevoli delle prime fiabe a un impianto narrativo più dinamico e allegro, sostenuto da un complessivo senso di divertissement» (p. 44). È un testo, dunque, che testimonia un ulteriore momento di passaggio della scrittura della giovane Morante, la quale si avvicina progressivamente a dei moduli che costituiranno le basi per la propria cifra stilistica futura. A questa altezza cronologica cominciano infatti ad emergere due elementi che poi si riveleranno nodali – seppur con latenze differenti – nei lavori successivi di Elsa Morante: il primo, più circoscritto e in un certo senso attivo fino alle soglie della maturità creativa, è relativo al tema dell’amore adolescenziale declinato secondo sfumature dal sottotono densamente erotico e connotate da un taglio psicologicoesistenziale forte. Il secondo, che avrà effetti di più lunga latenza, è quello del cronotopo di Capri. Lo sviluppo di questi due nodi tematici, inoltre, segna un passaggio fondamentale nella scrittura giovanile dell’autrice, dal momento che da questo punto in poi gran parte del lavoro di Morante pare convergere verso tutti quegli elementi che daranno linfa vitale a Menzogna e sortilegio. Il cambio di paradigma e, in un certo modo, di sensibilità da parte di Morante avviene attraverso un lavoro molto spesso travagliato, nel quale la costanza di scrittura e la ricerca di pareri terzi (come mostrano le note – anonime e di altra mano – presenti sul manoscritto inedito del racconto La piccola) diventano la direttiva principale del modus operandi della scrittrice. In questa fase è come se Morante fosse consapevole della complessità del materiale ispirativo e tematico da affrontare, ma allo stesso tempo «è ancora alla ricerca di un equilibrio tra l’urgenza espressiva e la misura diegetica» (p. 95). Tutto ciò si riflette in una scrittura in parte ancora stridente o ambivalente, il che probabilmente è anche l’esito di una sovrapposizione di stesure che vedono l’originarsi di un’idea narrativa in un tempo anteriore rispetto a quello della scrittura (o della ripresa della scrittura a partire da sezioni narrative già abbozzate in precedenza). Diverse caratteristiche testuali e tematiche dei testi appartenenti a questa fase di transizione, poi, trovano un riflesso o una maggiore concretizzazione in diverse suggestioni presenti in alcuni racconti che, pubblicati prima sul «Meridiano di Roma», in seguito andranno a comporre Lo scialle andaluso, a dimostrazione che il laboratorio della scrittrice è – più che un’officina – una vera e propria fucina dalla quale un materiale magmatico va via via prendendo forma. L’insieme di questo materiale testuale, oltre a delineare uno sviluppo creativo e stilistico dell’autrice, permette anche di focalizzare l’origine di un nodo tematico che la critica ha generalmente individuato per la produzione a partire dagli anni Sessanta, ovvero quello della pesanteur. Il lavoro di Porciani ci mostra come «attraverso il farmaco – rimedio ma anche, etimologicamente, veleno – della parola scritta Morante cerchi sin dai suoi esordi di gestire la propria ‘gravità’ mutandola in un interiore teatro della crudeltà teso fra sofferenza psichica e vis creativa» (p. 166). Ed è proprio in questa fase che si inizia a intravedere il legame tra la “gravezza” che abita nell’anima e il corpo, come dimostra la puntuale analisi critica proposta per i racconti La lezione di ginnastica e Il peso.
La ricognizione sui materiali giovanili di recente acquisizione termina con un capitolo dedicato ad alcune considerazioni sulla tendenza umoristica e parodica di tre prose morantiane: non più veri e propri racconti, bensì scritti che sono più vicini al giornalismo di costume. Tra queste tre vale la pena fare delle considerazioni su quello intitolato Il poeta demoniaco ovvero L’arduo stil novo. Attraverso un sottile gioco di finzione e specchi (già a partire dalla firma: non Elsa Morante, ma Antonio Carrera), l’autrice ha modo di costruire un’interessante palinodia sui suoi (appena) trascorsi poetici, ancora intrisi di un dannunzianesimo di maniera, seppur coerenti con i coevi temi sviluppati in prosa. Tramite l’interposta figura di Carrera, Morante ha modo di assumere una posizione critica sia verso un certo epigonismo contemporaneo sia verso i moduli poetici da lei sperimentati. Attraverso questo doppio livello di critica, sembra che l’autrice voglia esecrare un’attitudine poetica che punta essenzialmente alla forma e alla nebulosità esibita, perdendo così il contatto con la zona più schietta e profonda dell’ispirazione e dell’animo umano.
In conclusione, il merito maggiore del lavoro di Porciani (considerando anche i due saggi citati all’inizio) sta non solo nel fatto di aver messo a disposizione degli studiosi nuovi materiali testuali, ma anche – attraverso un’indagine critica scrupolosa e puntuale – l’aver costantemente dimostrato che una delle chiavi maggiori della produzione morantiana è la «memoria poietica dell’autrice» (p. 204), un vero e proprio cardine che inizia ad attivarsi sin dalle prime prove giovanili fino a permanere anche nelle zone più recondite di un romanzo consuntivo come Aracoeli.