È un libro assai interessante e decisamente originale,
questo di Filippo De Pieri. Lo è nell’oggetto: cinque
quartieri molto diversi tra loro – almeno a prima vista – situati in altrettante, e altrettanto diverse, città
e aree metropolitane italiane. Lo è nella struttura:
una cinquantina di brevi capitoli, la maggior parte
di impianto narrativo (numerati con cifre arabe) che
seguono le storie dei quartieri, inframezzati da altri
di taglio tematico-interpretativo (numerati con cifre
romane) che mettono a fuoco questioni trasversali
e nodi di fondo. Lo è, infine, nelle chiavi di lettura
proposte: facendo leva sulle analogie tra gli oggetti
d’indagine e sulla combinazione di diverse scale di
osservazione, l’autore prende di petto una questione fondamentale per la storia urbana (e non solo),
ossia il rapporto tra studi di caso e possibili forme
di generalizzazione della conoscenza.
Partiamo dai quartieri, intesi in senso lato come
«una costellazione di oggetti diversi per scala, accomunati soltanto dalla loro relazione con un progetto
di costruzione dello spazio abitativo urbano»; dall’esistenza, insomma, di «un’azione che si esplica con
strumenti differenti ma che si pone come obiettivo
la costruzione di luoghi – e di aggregati sociali –
riconoscibili dentro la città in espansione» (p. 58). I
cinque presi in esame sono l’esclusivo complesso di
Carimate, nell’area metropolitana milanese, costruito da un grande operatore privato intorno a un campo da golf; il Villaggio della Nebbiara a Reggio Emilia, progettato nell’ambito del secondo settennio Ina
Casa da una cooperativa di architetti e ingegneri per
una cooperativa di abitazione formata dai progettisti stessi e da altri soci reclutati negli ambienti cattolici della città; il Casilino 23, uno dei piani di zona
del Peep romano del 1964 realizzati interamente o
quasi da cooperative; corso Monte Cucco a Torino,
dove un altro intervento cooperativo, in un piano
di zona 167, fronteggia un complesso costruito da
privati su un’area ex industriale grazie a una convenzione con il Comune; infine, i piani di zona pesaresi
di Villa Andrea Costa e Villa San Martino.
Questi cinque quartieri De Pieri li ha studiati facendo ricorso a una metodologia incentrata sulla combinazione tra ricerca d’archivio, osservazione ed
esplorazione dei luoghi, interviste con abitanti e soprattutto con architetti, ingegneri e altri professionisti coinvolti nella loro progettazione e realizzazione.
Nel libro ce ne illustra le storie con una scrittura
che restituisce in soggettiva il proprio percorso di
ricerca, alternando il racconto agile e scorrevole alla
riflessione di maggiore densità concettuale. Scrivere
in prima persona è funzionale a rendere esplicito il
posizionamento dell’autore, ma siamo ben lontani
qui da quella storiografia autobiografica, iper-soggettivista verrebbe da dire, su cui si è recentemente appuntata la riflessione critica di Enzo Traverso
(2022).
Non è agevole, e forse nemmeno utile, riassumere
esaustivamente la ricchezza di contenuti del libro
nello spazio giocoforza limitato di una recensione,
per quanto ampia. Proverò dunque a evidenziare alcuni aspetti che più mi hanno colpito e che, a mio
avviso, risultano particolarmente interessanti.
Si può partire dal titolo e dall’immagine di copertina. Il primo è portatore di più di un significato.
Richiama, da un lato, le affinità tra i quartieri presi
in esame a livello di culture, modelli e riferimenti
progettuali, di cornici normative e procedure amministrative, di caratteri morfologici e sociali, di
immaginari abitativi e urbani. Dall’altro, rinvia all’idea di un abitare tra persone accomunate da una
certa estrazione sociale e da determinati stili di vita,
nell’ambito delle diverse stratificazioni dei ceti medi
e borghesi (talvolta anche da un’appartenenza religiosa o politica). Alla base vi è la «promessa implicita» – poi in buona parte disattesa – che caratterizzò
lo sviluppo urbano degli anni del boom: «quella
secondo cui le città, nonostante il persistere di disuguaglianze anche consistenti, fossero luoghi in cui le
differenze sociali erano destinate nel tempo ad attenuarsi, per effetto di una progressiva espansione dei
redditi, dei consumi e del welfare» (pp. 35-36). Una
società, dunque, che sembrava avviata a diventare
più uniforme a livello abitativo: il che non escludeva
affatto il permanere di differenze, anzi rendeva più
urgente la ricerca di elementi di distinzione – come
nel libro ben mostra, in particolare, il caso di Carimate. Il sottotitolo, poi, rinvia all’intreccio, piuttosto
che al semplice accostamento, tra storie che illustrano ciascuna un singolo caso di studio, ma si prestano a essere lette in una cornice unitaria in virtù delle
somiglianze e del gioco di rinvii, anche impliciti, che
le legano.
Passando all’immagine di copertina, il disegno
dell’atrio di un edificio con la porta semiaperta e
le pareti trasparenti restituisce efficacemente la dimensione del percorso e in particolare dell’attraversamento, che mi pare costituire l’autentica cifra di
questo lavoro. De Pieri ci propone un itinerario che
si snoda attraverso luoghi e oggetti in-between, che
‘stanno tra’ e congiungono, o comunque possono
essere visti come anelli di congiunzione tra spazi,
realtà e categorie diverse: esterno e interno, urbano e domestico, economico e signorile, pubblico e
privato.
Proprio l’idea di una distinzione netta tra città pubblica e città privata, che sorregge e struttura tanta
parte della letteratura storico-architettonica e storico-urbana sull’Italia del secondo Novecento, è qui
interrogata a partire dalla constatazione che non
solo esistono forme ibride, ma rilevanti appaiono
oggi gli elementi di comunanza e affinità tra quartieri che idealmente dovrebbero rientrare nell’una o
nell’altra categoria. Intendiamoci: la distinzione non
è rigettata in assoluto o scartata una volta per tutte.
Il libro, semplicemente, invita a non darla per scontata, a non ipostatizzarla, a riflettere criticamente sui
suoi presupposti, le sue implicazioni e la sua effettiva capacità euristica in relazione a specifici oggetti e
domande di ricerca.
De Pieri esplora il campo dei principali programmi
per l’edilizia economica e popolare dell’Italia repubblicana – il piano Ina Casa e poi la stagione dei piani
di zona 167, la cui attuazione, rileva giustamente,
attende di essere fatta oggetto di una ricostruzione
complessiva – entrandovi da un accesso che potremmo dire laterale, almeno sul piano storiografico
e del discorso pubblico: quello degli interventi promossi dalle cooperative di abitazione. Attraverso il
prisma dei quartieri, egli mette così anche in luce un
filo rosso delle politiche per la casa, ovvero la diffusione della piccola proprietà edilizia intesa come
uno strumento di stabilizzazione sociale e costruzione del consenso, con precise implicazioni politiche e di classe. Nelle sue parole: «Si tratta meno di
costruire un paesaggio residenziale per i ceti medi
che di costruire ceti medi attraverso il paesaggio residenziale» (p. 36).
Per diversi aspetti, tematici e/o metodologici, Tra simili si colloca nella scia di precedenti lavori dello stesso autore (De Pieri, Bonomo, Caramellino,
Zanfi, 2013; Caramellino, De Pieri, Renzoni, 2015).
È un libro di storia urbana in cui la prospettiva
storico-architettonica emerge nitidamente nella
centralità delle culture, dei riferimenti e dei modelli
progettuali, delle figure e del ruolo dei progettisti
(da maestri come Ludovico Quaroni e Carlo Aymonino ai ben meno noti rappresentanti di un professionismo diffuso), delle soluzioni e dei linguaggi
adottati nei singoli progetti. Ma è una storia dell’architettura che va ben al di là del progetto e della sua
traduzione in opere costruite investendo le politiche
abitative e urbane che ne definiscono il contesto e le
coordinate, valorizzando le culture di classe, gli stili
di vita e le aspirazioni diffuse che ne sorreggono e
ispirano le scelte, interrogandosi sullo spazio vissuto e aprendo dunque alla storia sociale dei quartieri
presi in esame. Tutti aspetti di pregio agli occhi di
un lettore come me, afferente a un altro dei settori
scientifico-disciplinari in cui è articolato – talvolta
verrebbe da dire compartimentato – il campo del
sapere accademico.
Tra simili è anche un libro contraddistinto da una
marcata riflessività sulle fonti. Di particolare interesse, ai miei occhi, le considerazioni relative alle
fonti orali e l’uso che l’autore ne fa in relazione ai
propri oggetti di ricerca. Delle interviste, De Pieri
rivendica in sostanza l’utilità anche per una ricostruzione su un piano fattuale dei processi, delle circostanze, delle pratiche, dei ruoli e delle relazioni tra
gli attori che presiedono alla produzione degli spazi
urbani. Al tempo stesso, quello che appare essere un
interessante errore di attribuzione di un intervistato
del Casilino 23 (pp. 241-242) testimonia un’attenzione per le percezioni degli abitanti, confermando quanto queste fonti, proprio in virtù della loro
«attendibilità diversa» (Portelli, 1979), possano essere euristicamente fruttuose per indagare gli spazi
vissuti e gli immaginari urbani. Riguardo alle testimonianze degli interlocutori professionali, ci si può
chiedere in che rapporto si ponga il loro utilizzo per
ricostruire la storia dei quartieri, da un lato, e/o per
analizzare, dall’altro, la costruzione e la trasmissione, nell’ambito di specifiche comunità di pratica, di
rappresentazioni memoriali, di narrazioni cioè più
o meno condivise sugli stessi. Così come ci si può
domandare con chi possa o debba essere esercitata
l’«autorità condivisa» (Frisch, 1990), ove si declini il
concetto a livello interpretativo, ed eventualmente
quali criteri entrino allora in gioco: la competenza
tecnica, l’esperienza vissuta, il radicamento territoriale, ecc.
Intento del lavoro non è fornire una ricetta universalmente valida su come generalizzare a partire da, e
senza perdere l’ancoraggio a spazi e luoghi specifici
che è caratteristico della storia urbana. Quella della
generalizzazione è, piuttosto, una questione di fondo intorno alla quale gravita la riflessione dell’autore. Da questo punto di vista, ho trovato particolarmente significativo il richiamo alla lezione della
microstoria, che mi induce ad accostare Tra simili a
un altro bel lavoro di ricerca uscito recentemente,
che applica una metodologia appunto microstorica
alla storia dell’Italia repubblicana: in questo caso,
alla vicenda di un gruppo di sindacalisti nel Veneto in profonda trasformazione degli anni Settanta-Ottanta (Casellato, Zazzara, 2022). Con tutte le
rispettive specificità, mi paiono due lavori che confermano come siano la pertinenza e la qualità delle
domande di ricerca con cui si interrogano un caso di
studio o una vicenda specifica, l’inquadramento storico e storiografico che se ne propone, la capacità di
articolarne l’osservazione e l’analisi a diverse scale
combinando indagine ravvicinata e visione d’insieme, e le chiavi di lettura attraverso cui se ne interpretano le risultanze, a consentire di farne emergere
la rilevanza generale.
Da ultimo, Tra simili non manca di interrogarsi sulla
dimensione pubblica della storia dell’architettura e
della città, offrendo utili spunti di riflessione sul rapporto tra la ricerca accademica e il vasto e variegato
campo della public history. In questo quadro, il libro
tocca anche una questione di carattere metodologico ed etico che a me pare assai rilevante per chiunque pratichi la ricerca sul campo costruendo dialoghi e relazioni con soggetti che in diverse forme
sono stati attori o testimoni delle vicende indagate:
quella del rapporto tra l’autonomia del ricercatore/
trice, in particolare nel definire le linee delle proprie
ricostruzioni e interpretazioni, e le inevitabili attese
dei suoi referenti, che possono averne variamente
agevolato il lavoro, dispensato informazioni, condiviso le proprie memorie, fornito altra documentazione, magari ispirato o suggerito piste di ricerca e
chiavi di lettura.