Recensioni / Diciotto proposte di lettura

«Se un’opera che è destinata a segnare il prima e il dopo di un’intera disciplina elegge l’espressione infelice di un autore a compendio di un paradigma che questi mai sostenne, il tentativo di un’esegesi più accurata sarà tanto arduo quanto vano». Con questo giudizio, forse, fin troppo categorico, si apre la breve postfazione di Mariano Croce, Per una etnografia del giuridico. L’istituzionalismo programmatista di Karl N. Llewellyn, che fa da cornice a questa “fortunata” edizione italiana del celebre saggio The Normative, the Legal and the Law-Jobs: the Problems of Juristic Method (1940) di Karl N. Llewellyn (1890-1962), curata dallo stesso Croce per Quodlibet. E pure, inaspettatamente – superando, probabilmente, anche i timori espressi dal suo Curatore – questo libro sembra riuscire nell’intento, più che arduo, di rimettere in discussione quell’etichetta, precipitosamente appiccicata, con effetti duraturi, da Herbert L.A. Hart, nel suo The Concept of Law (1961), al pensiero di Llewellyn. Irrimediabilmente associato dalla penna del positivista britannico ad una concezione scettica, «troppo radicale e dunque naif delle norme giuridiche», tendente ad una riduzione astratta dell’intero diritto alla sola attività del giudice.
Se da una parte, in effetti, non si può in alcun modo negare che Karl Llewellyn fu, fin dalle sue fasi fondative e di sviluppo, esponente autorevole e convintissimo del realismo statunitense, nel cui movimento culturale si inscrive integralmente il suo pensiero maturo. Dall’altra forse è opportuno provare, come suggerisce Croce, partendo da Il normativo, il giuridico e i compiti del diritto, a riflettere nuovamente, ed in una prospettiva diacronica, sulle sottili sfumature che delineano la fase finale della sua speculazione. A cominciare già da quei primissimi anni Trenta del Novecento, nei quali – seguendo il solco tracciato nel Profilo bio-bibliografico, che completa l’edizione – comincia ad insinuarsi in maniera pervasiva, nel lessico di Llewellyn, il concetto sociologico di istituzione, inteso quale «chiave crittografica di elementi portanti della vita giuridica di una società». È solo nel decennio successivo, però, che questo stesso concetto diventa, nell’intuito del filosofo statunitense, principio e fondamento dell’intera scienza giuridica, quale «unità fondamentale dei processi organizzativi » delle società umane, finendo per rappresentare, a sua volta, il perno principale intorno al quale ruota il lungo saggio qui tradotto. Non a caso, infatti, si può considerare questo contributo come una sorta di «laboratorio della visione più riflessiva e ponderata di Llewellyn, che ispira tutti i lavori degli ultimi due decenni della sua vita», rimasti sfortunatamente, secondo Croce, ad uno stadio del tutto embrionale e di difficile fruibilità.
Prendendo le mosse, da una considerazione gnoseologica sull’endiadi «sociologia del diritto», intesi come «ambiti di pensiero e discorso » non combinabili tra loro, Llewellyn muove, nel corso della trattazione, verso le «ragioni sociologiche per il metodo giuridico, i suoi presupposti e la sua natura», ossia verso i fondamenti pratici di «quegli schemi di comportamento semi-ricorrente che sono conosciuti come istituzioni giuridiche», spingendosi fino a prendere in considerazione l’esistenza di una vera e propria «normatività sociale», pre-statuale e pre-giudiziale, della quale il diritto dello Stato e la sentenza del giudice sono soltanto un «esito contingente ». Quello che emerge, alla fine della lettura, è il ritratto in chiaroscuro di un Karl N. Llewellyn un po’ meno cieco portavoce di uno scettico riduzionismo, e un po’ più, sulla scia di Santi Romano e Cesarini Sforza, interprete moderato di un «istituzionalismo pragmatista, che non cede mai alla tentazione di dire cosa sia il diritto in generale, ovvero al di là dei luoghi in cui lo si usa e in cui esercita certi effetti».