Non importano le giuste avvertenze con cui inizia il bel saggio introduttivo di Paolo d’Angello sull’invecchiamento delle argomentazioni di Cesare Brandi da lui messe in rilievo, il linguaggio in cui esse sono espresse, come anche le opinioni politiche; la pubblicazione, dopo mezzo secolo, sotto il titolo La fine dell’Avanguardia, di tre diversi saggi di Cesare Brandi intorno al tema (Quodilbet, pp. 194, € 16), è utilissima. Su di essa può, anche oggi, riaprire un dibattito tanto importante e attuale quanto la sintesi, ripubblicata alla fine del libro vent’anni più tardi, nel 1969, su «Ulisse» e che riassume in sole cinque pagine le sue tesi, dove esprime sul contemporaneo giudizi che potrebbero essere in gran parte condivisibili anche sugli ultimi quindici anni di produzione delle arti. O meglio, come egli dice, «dell’arte» al singolare. Fatta salva ovviamente la sottovalutazione per l’allora inimmaginabile peso, oggi dominante, del mercato come anche il sostanziale significato di rispecchiamento (conveniente) che domina l’impegno degli artisti visuali, diventati tutti multimediali in una sorta di caricatura dell’opera d’arte totale. Dopo il rispecchiamento del realismo
socialista il rispecchiamento del mercato come unico valore.
II secondo dei quattro saggi riportati nel libro, dal titolo L’arte oggi (che credo sarebbe stato meglio intitolare Le arti oggi), muove da una critica al dominio della tecnica, o meglio della «macchina», come Brandi la definisce, che è un tema che, con le difficoltà connesse alla nozione di tecno-scienza esclusa da Brandi, è stato motivo centrale della discussione teoretica dell’ultimo secolo. Basterebbe citare, per quanto riguarda la sua influenza nei confronti dell’arte, il libro di Klingender «Art and Industrial Revolution» scritto nel 1947, cioè negli stessi anni dei testi di Brandi.
La riflessione di Brandi sulla connessione tra «l’inintelligibilità della macchina» e il suo divenire immagine puramente decorativa è particolarmente attuale (specie se applicata al «design» dei nostri anni), anche se la polemica dell’autore è tutta volta contro l’«astrattismo», come pittura oggetto senza immagine e soprattutto volta a riaffermare l’unità dell’arte, senza sollevare alcun sospetto sulla specificità di ciascuna delle sue pratiche, cosa che incide sui suoi piuttosto sbrigativi giudizi sull’architettura moderna, come anche sul cinema e sulla musica.
II saggio sulla fine dell’avanguardia è del 1949 (poi ripubblicato da Einaudi nel 1973), ma bisogna ricordare che nel 1948 era stato pubblicato il famoso testo «Verlust der Mitte» di Hans Sedlmayr, a cui seguì all’inizio degli anni 50 La rivoluzione dell’arte Moderna, ambedue radicalmente negativi nel loro giudizio sulle avanguardie testi che certo Brandi conosceva. Brandi sostiene inoltre che in sostanza è il Romanticismo a rendere evidente la crisi di ogni arte moderna e l’avanguardia è l’elemento estremo di tale crisi di cui però egli dichiara «la fine»; senza ovviamente poterne prevedere cosa avverrà in futuro.
La mia tesi (ancora più azzardata e certo assai meno autorevole di quella di Cesare Brandi) è che invece è la stagione illuminista ad avere assegnato alle pratiche artistiche il nuovo compito di un atteggiamento critico rispetto allo stato delle convenzioni della società come fondamento dello scarto in cui si insinua il possibile e il mutamento proposto dalle arti: anche quello del sogno, della memoria e della critica alla stessa idea di arte. È a esso, più che al Romanticismo, che fanno riferimento le diverse (anzi diversissime) teorie delle avanguardie ed è allo smarrimento del dovere della distanza critica che può essere fatta risalire la fine dell’avanguardia come crisi del progetto moderno.
O meglio, per me, la sua lunga sospensione in attesa di un futuro progetto delle arti.